Moda e Stile

Moda, la Cina è qui da noi: le griffe sfruttano il lavoro come a Prato

Secondo il report della ong Abiti Puliti "nelle filiere italiane pochi soldi e turni anche di 12 ore, spesso in nero". Nel rapporto sono citati quasi tutti i grandi gruppi, da Louis Vuitton a Prada: nessuna legge li obbliga a controllare ciò che avviene nel subappalto

di F. Q.

L’itinerario nel settore della moda italiana inizia dalla Riviera del Brenta, in provincia di Venezia, famosa per il settore calzaturiero. Ci sono più di 550 aziende, le grandi griffe hanno evitato che il distretto collassasse durante la crisi economica, ma hanno divorato le imprese artigianali. I proprietari delle aziende locali sono stati assunti come operai specializzati. Per sopravvivere si deve sottostare a ritmi massacranti: “Hanno installato la manovia elettrica per andare più veloci – raccontano – e poi hanno aumentato le ore perché bisognava consegnare. Erano lì con il camion, pronti ad andare via. Non c’era più tranquillità. Ti dicevano: ‘Si devono fare 90 paia di scarpe per domani sera’. Si lavorava anche il sabato e fino a 12 ore al giorno nel momento del boom: le suole e i tacchi che non arrivano e devi fare tutto di fretta – prosegue – Invece di finire alle cinque e mezza finisci alle otto. E dovevi fare tutto molto bene perchè andavano in sfilata”. In Riviera c’è poca rappresentatività sindacale e i rari iscritti sono stranieri che hanno bisogno di spiegazioni burocratiche.GetContent.asp

“Tra le varie griffe – si legge nell’ultimo rapporto elaborato dalla campagna “Abiti Puliti” – sembra che Prada sia quella in cui i rapporti sindacali sono più complicati e le condizioni di lavoro più critiche. D’altra parte, Prada è l’unica delle grandi case del lusso che applica il contratto di lavoro del cuoio sebbene la produzione sia calzaturiera”. Questo tipo di contratto è più basso come livello economico rispetto a quello tessile o calzaturiero. L’azienda, contattata dal Fatto, non ha fornito, per ora, alcuna risposta. Ma altri nomi si ripetono spesso nello studio: Louis Vuitton, che contattata ha risposto di non “commentare questo genere di dati”. Dior, che dopo aver richiesto l’invio di una mail con specifiche domande, non ha fornito risposta. Armani, stessa situazione. Fendi, il cui telefono ha squillato a vuoto. Ferragamo: anche in questo caso richieste di mail e poi nulla. Il loro ruolo nelle vicende non è diretto. Spesso, però, le imprese che applicano condizioni disumane appartengono alla filiera di subappalti che ha origine proprio dalle grandi griffe.

Gli asiatici in Toscana producono  per i big della moda – In Toscana, nel distretto tessile di Prato, l’80% delle imprese è a conduzione cinese. Una “filiera nella filiera”, portata alla luce dopo l’incendio del dicembre 2013, senza permessi di soggiorno, con rapporti di lavoro irregolari, pagamenti in nero, evasione fiscale, orari di lavoro prolungati, luoghi insalubri. Ma il dato che stupisce è che l’allarme del mondo imprenditoriale è stato lanciato solo quando le ditte cinesi sono uscite dal loro tradizionale ruolo di terziste per assumere il controllo di tutte le fasi, dalla produzione alla distribuzione. Già nel 2003, uno studio di Antonella Ceccagno sul distretto tessile multietnico toscano sottolineava come, tra gli imprenditori cinesi subfornitori di aziende italiane, i nomi più citati fossero quello di Armani, Ferré, Valentino, Versace e Max Mara. Giovanna, che invece è italiana, racconta nel rapporto: “Cucivo le tomaie da casa a mano, con ago e filo. Io e mio figlio facevamo 20-30 paia al giorno. Mi pagavano al paio. In nero. Ti svegliavi alle 6 del mattino e fino alla sera tiravi tutto il giorno il filo. Perché devi fare questo movimento, così – racconta mimando il gesto – Per tutto il giorno, per prendere poi alla fine del mese 500, 600 euro”.

Dalle finestre a livello strada delle cantine dei vicoli di Napoli si vedono spesso operai impegnati a cucire nei sottoscala. Attraversando un ponte della zona industriale è facile notare laboratori con file di macchine per cucire attive a qualsiasi ora del giorno. Sono imprese conto terzi che producono per le aziende locali e le grandi firme nazionali. Ambienti in cui prevale ilricorso al lavoro nero, che sfocia nel sommerso e nelle produzioni cosiddette “parallele” (a servizio anche delle distribuzioni legali). A Napoli, il lavoro si tramanda, i laboratori sono casalinghi e familiari e si lavora anche in età scolare. Marco, che è un tagliatore, addetto ai tessuti, racconta di aver iniziato a 14 anni. “Ero impiegato nell’azienda di mio zio, una ventina di persone. Producevamo completi da donna per i grossisti. La maggior parte dei dipendenti era irregolare”.

Inutile andare all’estero, meglio importare lo sfruttamento del lavoro in Italia – Oggi, il problema è l’attribuzione di responsabilità. È colpa dei grandi marchi a capo della filiera o di chi subappalta? “Non esiste, a livello internazionale, una legge che obblighi le grandi case di moda ad avere il controllo su tutta la filiera di produzione. E così per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro in Italia le aziende possono alzare le spalle e dire ‘non ne sapevo nulla’” spiega al Fatto Francesco Gesualdi, che ha curato il rapporto “Abiti puliti”. “ Per salari più bassi e condizioni di lavoro infime, non c’è più bisogno di delocalizzare – continua – Si fa direttamente qui”. Partendo dal paniere Istat, emerge che il salario degli operai dell’abbigliamento italiano è inferiore a quanto necessario per vivere dignitosamente. “È assurdo se si considera quanto costa una borsa griffata o quanto spendono i grandi marchi solo in pubblicità. Si parla del 10% di tutti i ricavi”. Così, cresce il fenomeno del backreshoring, ovvero del ritorno in patria delle aziende di moda che avevano inizialmente delocalizzato. “Gli conviene – spiega Gesualdi – perchè importano lo stesso modello dell’Europa dell’Est, con la classe politica compiacente, col Jobs act che riduce le tutele. Le aziende hanno tutto dalla loro parte e il governo è compiacente. Che bisogno c’è di andare in Cina o Bangladesh se i lavoratori italiani sono trattati allo stesso modo?”.

Intanto, Benetton rifiuta di risarcire le vittime del crollo di Rana Plaza, a Dacca in Bangladesh, che nel 2013 provocò 1.129 vittime e 2.515 feriti. “Si ostina a respingere la sua responsabilità, nonostante tutte le prove della sua presenza in quella fabbrica – spiega Gesualdi –. Chiediamo che Benetton versi 5 milioni di dollari nel Fondo istituito, tramite l’Onu, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una cifra proporzionale all’entità dei profitti che il gruppo realizza e ha realizzato anche grazie al Rana Plaza”. All’accusa, mossa a dicembre da “Abiti Puliti”, Benetton aveva risposto dicendo di star operando tramite un’organizzazione non governativa, con un sostegno finanziario e corsi di formazione per 280 vittime e le loro famiglie. Un’iniziativa che, secondo “Abiti Puliti”, è “solo beneficenza”. E non ha nulla in comune con i diritti dei lavoratori.

Di Virginia Della Sala da Il Fatto Quotidiano 24 gennaio 2014

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