Uno al servizio della ‘ndrangheta, l’altra vittima di pressioni e intimidazioni per aver fatto il proprio lavoro. Due giornalisti, due storie opposte e speculari. Emergono entrambe dalle carte dell‘inchiesta ‘Aemilia’, condotta dalla Dda di Bologna, che mercoledì 28 gennaio ha portato, solo in Emilia Romagna, a 117 richieste di custodia cautelare. Il primo nome è quello del modenese Marco Gibertini, 49 anni, volto noto di Telereggio, emittente locale di Reggio Emilia, già coinvolto nel giugno scorso in un’inchiesta per frode fiscale, e oggi finito in manette con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il secondo invece è quello di Sabrina Pignedoli, penna del Resto del Carlino, bersaglio di minacce (immediatamente denunciate), per essersi occupata delle vicende legate alla famiglia di Antonio Muto.

Non solo il mondo dell’imprenditoria e della politica, quindi, ma anche quello dell’informazione locale è stato toccato dalla maxi-operazione dell’antimafia. Dimostrando come la rete emiliana della ‘ndrangheta considerasse fondamentale sfruttare a proprio favore i mezzi di comunicazione. Lo spiega lo stesso gip, Alberto Ziroldi, nell’ordinanza di custodia cautelare: “La ricerca del consenso mediatico, in palese controtendenza rispetto alle regole ferree della dissimulazione e dell’understatement mafioso, costituisce una delle nuove frontiere dell’infiltrazione”. Gli obiettivi sono due. Da una parte “amplificare la capacità espansiva del sodalizio” e dall’altra creare il terreno per un “atteggiamento più morbido dell’opinione pubblica”, portata a credere all’esistenza di una contrapposizione “tra Stato vessatore e onesti faticatori”.

Per capire meglio, però, bisogna entrare nel dettaglio delle due vicende e scorrere le carte dell’inchiesta. È l’autunno del 2012 quando a Reggio Emilia scoppia il caso della cena, organizzata a marzo dello stesso anno al ristorante Antichi Sapori, gestito dal crotonese Pasquale Brescia. Al tavolo, oltre a uomini dell’imprenditoria con precedenti per associazione a delinquere di stampo mafioso, si scopre che si è seduto anche l’allora consigliere provinciale del Pdl, Giuseppe Pagliani. La notizia fa discutere l’intera città. Fioccano polemiche e articoli. Per questo, Gibertini si organizza e comincia a lavorare per dare spazio e voce agli esponenti delle cosche presenti quella sera. Il 10 ottobre, proprio grazie all’impegno di Gibertini, uno dei partecipanti alla serata (oggi agli arresti), Gianluigi Sarcone, viene invitato nella trasmissione di Telereggio chiamata Poke Balle. Una puntata condotta dall’avvocato Stefano Marchesini, intitolata “La cena delle beffe”, e, secondo l’accusa, confezionata su misura per Sarcone.

Copione simile nel febbraio del 2013, quando, secondo le indagini, Gibertini si attiva per far ottenere a Nicolino Sarcone (fratello di Gianluigi) un’intervista sulle pagine dell’edizione locale del Resto del Carlino. La data di pubblicazione non è casuale. Esce domenica 3 febbraio, a pochi giorni dalla condanna per estorsione e associazione di stampo mafioso nell’ambito dell’inchiesta Edilpiovra, e l’articolo viene sfruttato da Sarcone per accusare i giudici di aver commesso un errore. È lo stesso Gibertini, nelle prime ore del mattino, ad avvisare Sarcone via sms della pubblicazione dell’intervista. “Ti hanno dato molto spazio. Due pagine ci sono”, gli scrive. L’intervista, però, sostiene ora il quotidiano Il Resto del Carlino, sarebbe stata fatta su iniziativa dal giornale, autonomamente, nell’ambito di un’inchiesta giornalistica.

Ma Gibertini non si muove solo sul terreno dell’informazione. Il giornalista utilizza i suoi contatti anche per procurare clienti agli affiliati e indirizzare vari imprenditori, pubblicizzando le “capacità” di Sarcone nell’attività di recupero crediti. “Ha rivestito – si legge nell’ordinanza – un duplice ruolo per il sodalizio criminoso: collettore di soggetti, in genere imprenditori, alla ricerca di soluzioni alternative, e ovviamente illecite, per il recupero dei crediti, e trait d’union tra il vertice della cellula reggiana Nicolino Sarcone e la ribalta mediatica capace di dare voce alle ragioni degli ‘ndranghetisti”.

Di tutt’altro tenore la vicenda di Sabrina Pignedoli. La giornalista del Resto del Carlino e collaboratrice dell’Ansa viene citata nelle carte come parte lesa. Il 13 gennaio 2013, la cronista racconta del rigetto del ricorso al Tar, avanzato dai fratelli Salvatore e Vito Muto, contro il divieto di detenere armi e munizioni ordinato dal Prefetto di Reggio Emilia. Nel pezzo spiega il loro legame di parentela con Rocco, Franco e Gaetano Muto, ai quali due mesi prima era stato bruciato un furgone. L’articolo però non piace agli affiliati. E così due giorni dopo, il 15 gennaio, la giornalista riceve una telefonata particolare. Dietro la cornetta c’è un poliziotto, Domenico Mesiano, 42 anni, originario di Catanzaro, autista dell’ex questore di Reggio Emilia, Domenico Savi, e responsabile dei rapporti con la stampa per conto della questura. Mesiano, con “tipica metodologia mafiosa”, scrive il gip, dice alla giornalista di non occuparsi più degli affari della famiglia Muto, in quanto questa non gradiva. Non solo. Le spiega di condividere l’opinione dei Muto e la minaccia: “Se non la smetti ti taglio i viveri”.

Una chiamata che mette in allarme la cronista, la lascia sconvolta e scossa. Per questo un minuto dopo decide di avvisare non solo i suoi capi al giornale, ma anche la magistratura, alla quale denuncia tutto. Mesiano oggi si trova in carcere, accusato di associazione a delinquere di tipo mafioso, di minacce e accesso abusivo alle banche dati della polizia. Secondo le indagini, Mesiano era in costante contatto telefonico con alcuni degli arrestati, tra cui Nicolino Sarcone e Antonio Muto. E si era messo “a disposizione del sodalizio per ogni richiesta avanzata da qualsiasi appartenente”.

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