Commuove un po’ che Jhumpa Lahiri, una delle più grandi autrici americane, premio Pulitzer, abbia deciso di diventare una scrittrice italiana. Una scelta ancora più coraggiosa se si pensa che di solito si tende verso la lingua più forte, quella dominante, non il contrario. Kundera o la Kristof hanno scritto in francese, ma rinunciavano al ceco o all’ungherese. Nabokov ha abbandonato il russo per l’inglese, non viceversa. Ma dietro a questa scelta, apparentemente un po’ folle, ci sono ragioni profonde e c’è una storia complessa, che lei racconta proprio In altre parole (Guanda).
Questo suo primo libro italiano è anche il suo primo libro autobiografico: in un racconto bellissimo, Il triangolo, ci fa capire cosa significa vivere fra due lingue, l’inglese e il bengalese, in perenne conflitto fra loro. Una è la lingua che ha intorno e l’altra è la lingua che ha in casa («Non andavano d’accordo, queste due mie lingue. Mi sembravano avversarie incompatibili, l’una insofferente all’altra. Pensavo che non avessero nulla in comune tranne me»). Questo conflitto improvvisamente si dissolve quanto spunta un terzo polo a sparigliare le carte: l’italiano. E’ la lingua della libertà, che può far da vertice a un triangolo, figura geometrica su cui lei fonda un equilibrio nuovo, anche creativo.
Oltre al coraggio ci vuole molta umiltà per affrontare una sfida del genere, ma il bello di Jhumpa è proprio questo: ha l’umiltà dei grandi. Sa che in letteratura non ci si può mai considerare arrivati, che solo il rischio tiene vivi e che nessuna carriera ha valore, conta di più sentirsi sempre debuttanti. Naturalmente si chiede «cosa vuol dire rinunciare a un palazzo per abitare quasi per strada», ma sa che «dal punto di vista creativo non c’è nulla di più pericoloso che la sicurezza».
E mentre lei cerca di rinnovarsi come scrittrice attraverso l’italiano, il lettore italiano si sente rinnovato da lei. Elenca parole che la colpiscono e di colpo queste parole assumono un fascino nuovo – «inviperito, stralunato» – spostate dal loro contesto, illuminate dalla sua curiosità, producono un «chiarore» inaspettato, suonano quasi parole magiche.
Si sente vicina a Matisse, che negli ultimi anni della sua vita cambia mezzo d’espressione e abbandona colori e pennelli per un paio di forbici. «Ho riconosciuto un artista che ha sentito il bisogno, a un certo punto, di cambiare strada, e di esprimersi diversamente», spiega a Venezia, alla Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri. «Che ha provato l’impulso folle di abbandonare un tipo di visione, perfino una certa identità creativa, per un’altra. Il metodo di Matisse assomiglia un po’ a quello che faccio io. I pezzi di carta sono le parole, già definite da altri, selezionate e sistemate da me. Cerco di rifondare, da uno scompiglio di elementi, qualcosa di coerente. Scrivere in una lingua diversa rappresenta un atto di smantellamento, un nuovo inizio».
(Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda, pp. 148, euro 14)