Metti una ricercatrice precaria, la speranza di un nuovo farmaco che potrebbe cambiare la vita a tanti pazienti, pochi fondi pubblici e molti volontari che cercano di raccogliere soldi con onlus dedicate, cene e feste; in mezzo ci sono la preparazione di un dossier ministeriale, il tentativo di finanziare la fase sull’uomo e un’interrogazione parlamentare. Detta così sembra una rivoluzione, o almeno potrebbe esserlo. Ma siamo pur sempre in Italia.
Teresa Pecere, ricercatrice all’Università di Padova – in realtà ha finito gli assegni di ricerca e ha un contratto di collaborazione – studiando una molecola naturale che si chiama Aloe-Emodin (AE) e si trova nell’aloe e nel rabarbaro, scopre che potrebbe curare alcuni tipi di cancro.
La ricercatrice mentre aspettava i tempi lunghi e mal pagati della sperimentazione ha vinto una concorso per la scuola e da dieci anni insegna scienze integrate in un istituto tecnico. All’università dirige invece un gruppo di ricerca “per la caratterizzazione dell’attività selettiva di AE nelle cellule neoplastiche sensibili” nei laboratori del Dipartimento di Medicina molecolare diretto da Giorgio Palù.
Con Modesto Carli, per anni direttore del reparto di Oncoematologia pediatrica a Padova, coordina la ricerca su alcuni composti naturali tra cui AE, con l’obiettivo di sviluppare un nuovo farmaco antitumorale con bassa tossicità per il paziente. Certo, se avesse scelto di trasferirsi all’estero avrebbe avuto più onori e più risorse; ma la dottoressa padovana, laureata in scienze naturali, botanica e specializzata in biologia molecolare e cellulare, ha preferito restare in Italia e depositare, insieme a Palù e Carli, due brevetti internazionali sull’attività di AE che vengono acquistati dall’Università di Padova.
Mantenere i brevetti però costa quasi 20mila euro l’anno e l’università non ha i soldi; scatta allora la solidarietà dei cittadini, spesso persone colpite direttamente o in famiglia dal cancro. Come Daniela Camellini, ex direttore Marketing della Metro Italia che ha raccolto più di 200mila euro sensibilizzando privati e aziende o Sandra Bertolazzi, che dopo aver perso il marito fonda l’associazione veneta Franco Marcolin e raccoglie con cene e feste i fondi. Con fatica tutto procede e i dati sperimentali sono incoraggianti; nel 2000 esce sulla prestigiosa rivista Cancer Research l’articolo, firmato dalla ricercatrice e dall’équipe, che descrive l’innovativa attività antitumorale di AE. “La pubblicazione – spiega Pecere – dimostra che AE è in grado di colpire preferenzialmente tumori di origine neuroectodermica come il neuroblastoma, malattia rara e tipica dell’età infantile. Il lavoro spiega che la molecola ha scarsi effetti tossici acuti, pur inibendo in maniera efficace la crescita tumorale”.
Tutto sembra andare per il verso giusto, tanto che in collaborazione con il Dipartimento di Oncologia dell’Istituto Negri di Milano il gruppo della dottoressa padovana conduce esperimenti di farmacocinetica preclinica per valutare l’assorbimento e la distribuzione della molecola nel sangue e negli organi. I risultati sono sempre più incoraggianti. La letteratura internazionale negli anni successivi si occupa di AE, e scopre che è attivo anche nei confronti di altri tumori come il melanoma, il carcinoma di Merkell e diversi tipi di tumore del polmone. A questo punto alcuni ricercatori americani si chiedono se AE possa essere il “prossimo successo contro il cancro”.
Altri ancora, testando AE in combinazione con farmaci chemioterapici, ipotizzano l’efficacia della molecola come coadiuvante della terapia classica, e propongono che AE possa essere: “the new bullet against cancer”. Tuttavia per presentare il dossier al Ministero della Salute e avviare i trial clinici sui pazienti è necessario condurre gli studi preclinici e produrre il farmaco in condizioni GMP (Good Manifacturing Practice). “I costi del percorso sono estremamente elevati” spiega l’avvocatessa Francesca Toppetti di Roma, in contatto con Teresa Pecere perché colpita anche lei in famiglia dalla malattia. “È necessario seguire le indicazioni dell’Ema (European Medicine Agency) ed è fondamentale che i protocolli siano condotti secondo elevati standard di sicurezza” dice l’avvocatessa. Francesca – una lunga esperienza nel volontariato – si è impegnata a raccogliere 1,5 milioni costituendo una onlus dedicata al progetto, anche se dai primi preventivi ne servono almeno il doppio. La faccenda è stata oggetto anche di una interrogazione parlamentare presentata da Iannuzzi e Vignaroli (M5s) in cui si chiede – citando il lavoro della ricercatrice padovana – “come mai nonostante il trattamento con AE abbia dimostrato effetti curativi nel trattamento di patologie neoplastiche non è ancora in uso come terapia presso strutture sanitarie pubbliche”.
L’abstract dello studio su Cancer Research
Dal Fatto Quotidiano del 15 febbraio 2015