A sentire Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti gli italiani si erano fatti l’idea che l’ora delle decisioni irrevocabili fosse giunta. Da venerdì 13 febbraio i ministri di Esteri e Difesa hanno parlato come se la “macchina bellica” stesse oliando i cingoli e l’Italia si stesse preparando a sbarcare in Libia per contrastare gli jihadisti dello Stato Islamico che, dopo aver preso Sirte, minacciavano anche le cose italiane. Quasi una settimana di fibrillazioni e dibattiti in cui giornali, siti web e tv hanno fatto a gara a quantificare le forze da mettere in campo e immaginare scenari desertici con tanto di accampamenti e via vai di jeep e carri armati, cui ha invertito la tendenza il 16 febbraio un intervento del premier Matteo Renzi e che si è conclusa il 18 con il definitivo dietrofront del capo della diplomazia. Sei giorni in cui le istituzioni, in una triangolazione tra via XX Settembre, la Farnesina e Palazzo Chigi, hanno dato l’idea di un governo capace di dire tutto e il contrario di tutto su un tema delicato come un’eventuale missione militare al di là del Mediterraneo.
La mattina del 13 febbraio le agenzie battono la notizia secondo cui “l’organizzazione dello Stato islamico ha preso il controllo la notte scorsa di alcune radio locali nella città libica di Sirte, 450 chilometri a ovest di Tripoli” (AdnKronos, ore 10.42) e poco dopo l’ambasciata italiana a Tripoli dava indicazioni ai connazionali di lasciare “temporaneamente” il Paese. Sette ore più tardi Paolo Gentiloni lanciava l’avventura bellica: “L’Italia è minacciata dalla situazione in Libia, a 200 miglia marine di distanza”, spiegava il ministro degli Esteri a SkyTg24, mettendo in chiaro: l’Italia “sta sostenendo le Nazioni unite che cercano di trovare una mediazione tra le diverse forze” ma “bisogna porsi il problema con le Nazioni unite di fare qualcosa di più”. Per questo l’Italia è “pronta a combattere in un quadro di legalità internazionale“, scandiva il capo della Farnesina (lo stesso che solo il 22 gennaio, a Londra per il vertice ristretto dei 21 ministri degli Esteri della coalizione internazionale anti-Isis, annunciava senza circostanziare la minaccia: “Ci sono di rischi di infiltrazione anche notevoli di terroristi dall’immigrazione” per poi essere garbatamente corretto nel giro di un’ora dal suo stesso ministero: “Stabilire generiche relazioni tra terrorismo e immigrazione, oltre ad essere privo di senso, significherebbe fare un regalo ai terroristi”).
Mentre i primi connazionali a Tripoli prendevano il mare per far ritorno in Italia, il 15 febbraio Roberta Pinotti alzava i toni e parlava di 5.000 militari da inviare sull’altra sponda del Mediterraneo: “Se in Afghanistan abbiamo mandato fino a 5mila uomini – spiegava il ministro al Messaggero – in un paese come la Libia che ci riguarda molto più da vicino, la nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente”. Per parlare dello scenario, Pinotti utilizzava il modo della certezza, l’indicativo futuro: “Disponiamo di tre forze armate più la quarta, i carabinieri, che operano come un tutt’uno. Mezzi, composizione e regole d’ingaggio li decideremo con gli alleati”. Ovviamente a guidare l’intervento sarebbe stata Roma: “L’Italia immagina d’avere un ruolo di leadership in Libia come l’abbiamo avuto in Libano, per motivi geografici, economici, storici”. Pronta anche la lista degli alleati: “La Francia, la Gran Bretagna, la Germania, la Spagna, Malta e altri che aderiranno. Gli Stati Uniti saranno coinvolti nella strategia, quanto alla partecipazione diretta si vedrà”. Salvo, poi, ammettere che “stiamo parlando di ipotesi, non c’è alcuna decisione“.
Di che tipo di intervento si parla? Con quali alleanze? All’interno di quale coalizione? Con quali piani post-bellici? Niente risposte, solo dichiarazioni generiche su un’azione militare in una realtà come quella libica, piombata nel caos proprio dopo l’ultimo intervento militare guidato dalla Francia nel 2011 per abbattere il regime di Muammar Gheddafi. Non si muove neanche il cingolo di un carro armato ovviamente, ma le parole in politica estera hanno un peso e le dichiarazioni dei due ministri hanno immediate conseguenze politiche. Il 14 febbraio Al Bayan, la radio “ufficiale” dell’Isis in Iraq, riesuma i toni propri dello scontro di civiltà e si scaglia contro l’Italia, definendo Gentiloni “ministro degli esteri dell’Italia crociata“. Un avvertimento raddoppiato da Hamas il 17 febbraio: “Respingiamo questo intervento e lo consideriamo come una nuova crociata contro i Paesi arabi e musulmani”.
“A Paolo Gentiloni la mia vicinanza e sostegno per minacce Isis. Il pensiero che ha espresso è quello di tutto il Governo“, twittava sicura la Pinotti il 14 febbraio. Invece no, perché il 16 febbraio il presidente del Consiglio in persona smentiva entrambi: “La vicenda è problematica, la seguiamo con grande preoccupazione e attenzione – dice Matteo Renzi al Tg5 dell’ora di pranzo – ma non si passi dall’indifferenza totale all’isteria e a una reazione irragionevole. La situazione in Libia è difficile ma la comunità internazionale ha tutti gli strumenti per intervenire, se vuole“. “Se vuole” la comunità internazionale ovviamente, scandisce Renzi sconfessando su tutta la linea due ministri del suo governo. L’appello innesca l’immediato dietrofront. Già il 15 Gentiloni corregge il tiro e, da bellico, l’intento diventa politico: “L’Italia promuove un impegno politico straordinario ed è pronta a fare la sua parte in Libia nel quadro delle decisioni delle Nazioni Unite”. Il vertice con Renzi e la Pinotti del 17 febbraio segna la svolta e il 18 in audizione alla Camera il capo della Farnesina finisce definitivamente di smentire se stesso e la collega alla Difesa: “L’unica soluzione alla crisi libica è quella politica. Chiediamo alla comunità diplomatica di aumentare gli sforzi”. Ancora: l’Onu prenda coscienza “della necessità di raddoppiare gli sforzi per favorire il dialogo politico“.
Conclusione cui era giunta il giorno precedente l’Unione Europea che non era intervenuta sulla questione e che, con l’Alto Rappresentante per la politica estera Federica Mogherini, aveva tenuto sul tema un profilo molto defilato. “L’opzione militare non è la soluzione al conflitto. Bisogna incoraggiare il dialogo fra tutte le parti in Libia”, afferma Lady Pesc lo stesso 17 febbraio. Giorno in cui arriva una dichiarazione congiunta con la quale “i governi di Francia, Italia, Germania, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti” sottolineano “ancora una volta l’impellente necessità di una soluzione politica del conflitto”. E addio ai toni bellici, tutti italiani, dell’ultima settimana.