Il superamento dei co.co.pro, previsto dal terzo decreto attuativo del Jobs Act, rischia di rendere ancora più precari oltre 400mila collaboratori a progetto, il 75% di quelli attualmente esistenti. Il pericolo è che i contratti di questi lavoratori si trasformino in voucher e partite Iva “camuffate”. Esito opposto rispetto all’intenzione dichiarata del governo, che, per usare l’espressione del premier Matteo Renzi, è quella di “rottamarli” facendoli confluire nel nuovo contratto a tutele crescenti. A lanciare l’allarme è l’Osservatorio dei lavori dell’Associazione 20 Maggio, che si occupa di elaborare dati e produrre studi sul lavoro precario. Nata nel 2007 all’interno del Forum del lavoro del Partito democratico, l’associazione si dichiara indipendente rispetto al movimento politico.
“Le nostre simulazioni mostrano come circa 317mila collaboratori a progetto abbiano percepito nel 2013 meno di 7mila euro di reddito – spiega Patrizio Di Nicola, direttore dell’osservatorio e sociologo, docente all’università La Sapienza di Roma. – È plausibile che, una volta aboliti i contratti di collaborazione, più che passare a forme di lavoro subordinato vengano trasferiti nel lavoro accessorio”. Per il quale l’ultimo decreto legislativo ha innalzato il tetto massimo di introiti da 5mila a, appunto, 7mila euro. “E che, nonostante gli incentivi per il contratto a tutele crescenti, risulta meno oneroso per i committenti”.
Quando si parla di lavoro accessorio si fa riferimento ai buoni lavoro, più comunemente conosciuti come voucher. Si tratta di tagliandi con cui l’azienda paga una prestazione lavorativa occasionale. Ogni buono vale 10 euro, dei quali 7,50 finiscono netti in tasca al lavoratore. Il restante 25% corrisponde ai contributi Inps (13%) e Inail che il datore di lavoro deve versare. Per evitare abusi nel ricorso a questo strumento, la legge fissava a 5mila euro il tetto massimo di reddito che un lavoratore poteva percepire attraverso i voucher in un anno. Il Jobs Act, invece, ha spostato l’asticella verso l’alto, a 7mila euro.
“Con questo intervento, il voucher diventa più interessante per un’azienda – spiega il professore – Per esempio, con questa cifra, un imprenditore può pagare un lavoratore part-time per 10 mesi”. Una possibilità che diventa ancora più concreta nelle società di dimensioni ridotte. “I co.co.pro. sono usati principalmente da aziende medio-piccole, che guardano molto al risparmio sulla manodopera – ragiona il docente – Un piccolo artigiano, alla scadenza dei co.co.pro., difficilmente attiverà un contratto a tempo indeterminato che, anche considerando gli sgravi fiscali, gli costerebbe ben più di 7mila euro. E’ più facile che ricorra ai voucher, che lasci a casa il collaboratore oppure che lo paghi in nero, anche perché il pericolo di essere scoperti è bassissimo”.
Un discorso simile si può fare anche per i co.co.pro. con un reddito compreso tra i 7mila e i 15mila euro. “In realtà – prosegue Di Nicola – la platea potrebbe essere ancora più ampia se si pensa che altri 99.560 collaboratori a progetto hanno realizzato redditi inferiori ai 15mila euro e, quindi, potrebbero essere assorbiti nel nuovo regime dei minimi previsto per le partite Iva”. Anche in questo caso, argomenta il professore, all’azienda non conviene adottare il contratto a tutele crescenti: “Con la partita Iva, l’imprenditore può risparmiare sui contributi Inps, sull’Irap e sugli strumenti di produzione, che sono a carico del lavoratore”.
Calcolatrice alla mano, dunque, le stime dell’Associazione 20 Maggio parlano di oltre 416mila collaboratori a progetto che difficilmente approderanno al contratto a tempo indeterminato. La cifra rappresenta il 75% del totale dei co.co.pro. attivi in Italia che, secondo i dati Inps, si attesta a 545mila unità, mettendo insieme i collaboratori dei settori privato e pubblico. “Speriamo che il governo tenga conto di tale rischio – si augura il docente – e metta in campo i necessari interventi per favorire il passaggio degli attuali collaboratori a forme di lavoro stabili e non ancor più precarie”. Il decreto del Jobs Act, infatti, deve ancora essere esaminato dalle commissioni parlamentari per poi essere approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri. Resta da capire quali iniziative possano essere adottate in questo senso. “Per esempio – suggerisce Di Nicola – si potrebbe inserire una norma per vietare che i contratti a progetto possano trasformarsi in voucher. Sarebbe una salvaguardia per centinaia di migliaia di persone”.