Dire “amico” non basta, serve che sia “amico nostro”. Questo vale. Come anche il saluto. “Non basta che ai cristiani si dica buonasera (…) ma bisogna andare a stringere la paletta a tutti, la paletta sarebbe la mano. Io non lo feci e per questo mi richiamarono”. Farsi vedere al bar, alle “mangiate”, è un obbligo “perché il sole scalda chi vede”. Sgarrare è vietato. Anche se poi “corretti non siamo nessuno che siamo malavitosi e gente di galera”. Gente che in carcere “si fa lavare i piedi dai marocchini perché hanno mancato di rispetto”.
È la ‘ndrangheta a chilometro zero, vissuta giorno dopo giorno, per le vie del paese, ai tavolini dei bar, in auto verso l’ultimo chilo di cocaina da trafficare, verso l’ennesimo compare da scannare. Non a Platì o a San Luca, ma in quel fazzoletto di terra lombarda che dal Comasco corre verso la Svizzera. Capannoni, industrie, grandi magazzini e piccoli centri. Il terreno ideale per far crescere la mala pianta. Parola per parola ecco l’ordinaria quotidianità mafiosa raccontata da Luciano Nocera, trafficante, affiliato con la dote della Santa, in carcere dal luglio 2014 prima con l’accusa di droga e poi con quella di aver scannato “un cristiano”.
Nocera decide di collaborare il 30 ottobre 2014. Lo fa davanti al pm Marcello Musso. In quel momento i “compari” già conoscono la sua decisione. “Si sono incontrati per dire che ero un infame”. La sua verità, però, la metterà a verbale tra il gennaio e il febbraio di quest’anno. Ad ascoltarlo ben quattro magistrati dell’antimafia milanese: Francesca Celle, Alessandra Dolci, Sara Ombra e Paolo Storari .
“La mia affiliazione è avvenuta nel 2004 nel carcere di Como, mi portò avanti Lugi Vona”. I boss lo premiano perché nel 1994 si fa la galera senza parlare. Nocera, originario di Giffone, quando viene battezzato ha 36 anni. “Da sempre sono stato vicino a gente affiliata, ero un contrasto onorato. Prima mi diedero lo sgarro e poi la Santa”. In due settimane Nocera passa dalla società “minore” a quella “maggiore”. Spiega: “Sulla minore è stato bruciato un santino, sulla maggiore c’era un bicchiere e tre molliche di pane”. La cella è stata purificata: “Io battezzo questo locale come lo battezzarono i nostri cavalieri di Spagna (…). Per il conferimento della Santa, Vona mi fece una croce sulla schiena e bevve il sangue che uscì”.
L’affiliazione viene festeggiata con una torta che Nocera compra grazie ai soldi per le spese del carcere. Battesimi nelle galere lombarde e poi decine di affiliati in libertà. Come “Bartolino Iaconis”. Imprenditore della ristorazione e del gioco d’azzardo, Iaconis nel 2008, dopo l’omicidio di Franco Mancuso avvenuto ai tavolini di un bar di Bulgorello, “si è ritirato, perché, mi diceva, è quattro anni che ho dietro la Boccassini”. Gente insospettabile, dunque. “Che va a lavorare e che poi gli piace la ‘ndrangheta, gli piace il rispetto ed essere affiliati”. E ancora: “Qui uno che ha fatto un reato non lo trova, perché è gente che dal lunedì al sabato va a lavorare e poi alla domenica fanno i malandrini”.
Gente normale all’apparenza. “Come Bruno Mercuri che a casa non ha neanche il permesso di andare in bagno se non vuole la moglie e fuori fa il malandrino, però a casa deve mettere le pantofole”. Quella di Nocera è una versione che sconcerta e che rimescola alcune certezze investigative. Su tutte il fatto che dal clan si esce solo con la morte. “Mio zio – spiega il collaboratore – apparteneva alla ‘ndrangheta, poi ha pagato e non ha più voluto (…). Suo figlio aveva l’ordine che se arrivava Michele Chindamo (capo locale a Fino Mornasco, ndr) di dirgli che non c’era e lui era dietro le tende”. Il ragionamento è chiaro: “Ciccio Scarfò era un capo eppure si è ritirato e basta”. Dinamiche e assetti. E così se “a Bulgorello c’è un buon ordine”, il “crimine”, ovvero la struttura di governo delle cosche, “l’ha sempre tenuto Mariano Comense” almeno fino “a quando resta in vita il vecchio e cioè Salvatore Muscatello”.
Nel racconto ci sono luoghi e tanti bar. Veri e propri uffici della ‘ndrangheta, scavati nei muri dei piccoli paesi lombardi. Che fanno i mafiosi ai tavolini? Giocano come semplici pensionati. “A Padrone e sotto – dice Nocera -, è un gioco calabrese con la birra”. Tra un bicchiere e l’altro, poi, arriva la proposta di aprire una ‘ndrina. “Te la facciamo aprire qua a Lurate Caccivio, ti pigli a chi vuoi tu”. Nocera rifiuta perché “a me i casini non piacciano, a me piace fare le mie cose, starmene nell’ombra”. Da sempre fa “battute” (traffici, ndr) con “il materiale” (la droga, ndr). Come quando fece arrivare una Bmw a “un politico albanese per fare passare l’erba, prima che cadesse il governo e che bruciassero le piantagioni”. O come quando trafficava con la Svizzera e “il materiale” glielo pagavano in franchi. Nocera lavora con la droga ma assicura di non aver mai fatto estorsioni. Nocera scanna “un cristiano”, ma si preoccupa dei cani che, dice, “vanno curati”.
E a proposito di “cristiani”, impressiona il racconto dell’omicidio di Salvatore Deiana scomparso nel 2009 e ritrovato cadavere il febbraio scorso in una buca scavata nei boschi dell’Olgiatese. Deiana sarà ucciso nelle cucine della pizzeria “Qua e là” per un debito di droga e per aver sparato al suo creditore. “Era il giorno della festa della donna – spiega Nocera – . Lo portarono in cucina per pippare e gli dissero: questa è l’ultima alba che vedi. Lui rispose: sì. Lo accoltellarono, ma non voleva morire, forse era per la cocaina che c’aveva in corpo. Poi hanno ripulito la cucina”. Prima di Deiana è toccato a Franco Mancuso. Era il 2008. Dopo di lui, nel 2014, Ernesto Albanese viene scannato nei boschi e sepolto dentro a un cantiere. Benvenuti al nord.
da il Fatto Quotidiano dell’8 marzo 2015