Insegnare i testi dei cantautori a scuola. Il tema è oramai logoro, ma ogni tanto se ne torna a parlare, per esempio in occasione del ricordo commosso di artisti scomparsi. È successo anche alcuni giorni fa, quando, in occasione delle celebrazioni alla memoria di Lucio Dalla tra il primo e il quattro marzo, il ministro Franceschini ha detto che “è il momento di inserire lo studio dei testi dei grandi cantautori nella storia della letteratura italiana. “Quali? Dalla, De André, Guccini, De Gregori, Conte, potrei andare avanti a lungo”. Pochi giorni dopo, inoltre, c’è stata la premiazione del concorso Zero in letteratura, promosso da Renato Zero, tramite il quale i testi del cantante romano sono stati interpretati dai ragazzi delle scuole.
Che il mondo accademico abbia aperto oramai le porte alla canzone e ai cantautori non è un segreto: non si contano più le tesi di laurea che trattano l’argomento, nelle diverse facoltà. In generale, però, gli studi più strutturati che riguardano la cosiddetta popular music (e che nello specifico fanno capo alla principale istituzione di questo ambito, la Iaspm www.iaspmitalia.net ), si occupano delle opere musicali pensate in funzione di un’ampia diffusione mediatica, per mezzo delle forme di distribuzione o dei media ‘esplosi’ nel Novecento.
Altra cosa è la letteratura. E altra cosa è il fatto di concepire la possibilità che i testi delle canzoni possano essere letteratura. Quest’ultimo aspetto è sempre stato visto con scetticismo dal mondo accademico. Al netto dello snobismo intellettuale, però, i motivi francamente risultano del tutto oscuri.
È vero, banalmente, che la poesia è fatta di parole senza musica, mentre la canzone no. Ma allora bisognerebbe smettere di studiare tutta la poesia latina, i poeti medievali e anche quelli successivi fino al nostro Ottocento, in cui i versi hanno una metrica del tutto derivante e dipendente dai tempi musicali. No, non è questo il punto, credo che si debba andare oltre.
Credo che si debba tornare a concepire ciò che ogni poeta degno di chiamarsi tale sa alla perfezione: la musica da sola basta a se stessa; la parola invece è – anche se letta con gli occhi –, inscindibile dal suono, quindi dalla musica, per questioni culturali ed esperienziali.
Bisogna, però, andare a monte, per esempio nelle competenze degli insegnanti. Se anche si accettasse che i versi di Guccini o Gaber possano essere considerati letteratura e dunque insegnati nelle scuole, il problema sarebbe che, secondo il nostro sistema di crediti universitari necessari per poter insegnare nelle apposite classi di concorso, non sta negli obblighi dell’insegnante di Lettere di medie e superiori dover conoscere nozioni musicali, neanche le più elementari.
Credo invece che ci sia bisogno di far capire ai ragazzi che la metrica della poesia non è calcolo astratto delle sillabe, ma si conta sulle dita, si batte sui banchi, si percuote con misura, e che la misura significa. Che l’endecasillabo non è necessariamente un verso di undici sillabe, che la poesia succede, si canta. Che la metrica è alternanza di tempi forti e deboli e non studio a tavolino delle sillabe senza alcun motivo pratico (semmai inoltre si dovrebbe parlare di ‘posizioni’), da parte di insegnanti che possono non avere tutti gli strumenti per insegnare ciò che insegnano, a studenti che di conseguenza non comprendono perché a loro dovrebbe interessare la differenza tra settenario e novenario o lo schema AbbA.
Compito del Ministero dovrebbe allora essere di inserire discipline apposite in quello che un tempo si chiamava ‘piano di studi’ universitario: melodia e armonia in funzione della parola, tempi in battere e in levare, cellule ritmiche, cadenze e via dicendo (cambieranno i tempi, vivremo solo nel cyberspazio, ma queste cose non cambieranno mai). In questo modo sono pronto a scommettere che, magicamente, i ragazzi capirebbero meglio anche le poesie di Dante, Ariosto o Leopardi, cioè di quei poeti attualmente propinati nelle aule scolastiche come una litania obbligatoria.
A leggerli nel modo giusto, c’è grande forza nei loro versi, forza che si adatterebbe perfettamente all’indole degli adolescenti. E invece quella vitalità viene castrata, diventa stagnante, scriteriata e giustamente scatena – solo perché insegnata nel modo sbagliato – un naturale rifiuto nella voglia di dinamismo e ribellione dei ragazzi.