Ripubblichiamo un ritratto di Prince uscito il 19 marzo 2015 su FQMagazine.
Scrivere un ritratto di Prince Roger Nelson, meglio noto come Prince, è impresa difficilissima. Per almeno un paio di seri motivi. Primo, nel corso di quasi quarant’anni di produzione ha tirato fuori di tutto, centinaia e centinaia di canzoni, collaborazioni, album, antologie, video, look, mode. Secondo, nella sua istrionica volubilità, quella stessa che ha in parte contribuito a fare di lui uno dei personaggi più interessanti della scena pop mondiale da che il pop esiste, subito dopo ovviamente una genialità musicale probabilmente senza pari nell’ambito della musica leggera di matrice black, fa sì che Prince sia difficilmente etichettabile almeno per quel che concerne la contemporaneità. Senza star qui a fare aneddotica riguardo il suo passato remoto, quando da vicepresidente della Warner Bros decise di rescindere tutti i contratti discografici andando addirittura a rinunciare al suo nome per sposare l’acronimo più impronunciabile di sempre, TFKAP, ovverosia The Artist Formerly Known As Prince, l’Artista un tempo conosciuto come Prince, basta seguire la cronaca musicale giorno per giorno per vedere come il ‘nostro’ passi amabilmente dal regalare online i suoi lavori, perché il futuro passa da Internet, al ritirare tutti i video da Youtube perché la Rete è il Male. Probabile, quindi, che mentre state leggendo queste parole, questo ritratto, Prince abbia cambiato idea sullo show biz, sul modo di fruire la musica, sulla religione o Dio solo sa cosa. Ragione per cui, nello scrivere un ritratto, onde evitare di incappare in epic fail clamorosi, lo scrivente, che poi sarei io, opta per un ritratto atemporale, in cui si racconta sì quel che c’è da raccontare, ma da una prospettiva sufficientemente lontana da evitare le sbavature dei dettagli, piccole rughe di fianco agli occhi e agli angoli della bocca.
Ecco, un dettaglio però lo vogliamo tirare in ballo subito, tanto per dimostrare che cambiare idea rispetto ai propri propositi è facilissimo. Prince ultimamente si fa vedere in viso con una pettinatura afro da far impallidire il ricordo di Angela Davis, attivista delle Pantere Nere famosa per il suo look tanto quanto per le sue idee, almeno in questa parte del globo. Capelli riccissimi e gonfi, un po’ anche come la prima Erikah Badu, qualcosa di assai distante dalle piastre con le quali era solito mostrarsi ai tempi dei suoi esordi, For You, anno del Signore 1978, quando è passato nel giro di un niente dall’essere il pluristrumentista geniale che faceva da sguattero agli studi in cambio del permesso di usare i locali quando erano vuoti. E qui abbiamo già cominciato a gettare le basi. Prince è un pluristrumentista che si è fatto da sé. Chi tra noi ha visto il film Purple Rain, la cui colonna sonora è stata indicata dal Rolling Stone USA come il più bell’album del secolo scorso, a ragione direi, sa che il nostro è figlio d’arte e che ha un rapporto lievemente problematico coi propri musicisti. Per buona parte della sua carriera, infatti, ha ben visto di fare tutto da sé, o almeno tutto quel che gli riusciva, quindi suonare tutti gli strumenti tranne quelli a fiato. A leggere i credits di buona parte della sua produzione c’è da impallidire, tutto suonato da lui. Con poche ospitate, spesso di fanciulle. Perché questa è stata a lungo una caratteristica di Prince, e anche di questo si ha piccola prova in Purple rain, un film e un album, ricordiamolo, che risale a qualcosa come trentuno anni fa, non esattamente l’altro ieri, il folletto di Minneapolis, come lo hanno a lungo chiamato quando contendeva lo scettro di Re del Pop a Michael Jackson, ha sempre avuto una propensione per il gentil sesso, e questa propensione lo ha spesso portato a circondarsi di cantanti donne e musiciste cui ha prodotto lavori spesso, se non sempre, prescindibili. L’elenco potrebbe essere inutilmente logorroico, ma solo per citare le più note, basti ricordare Wendy and Lisa, Jill Scott, Sheila E, Sheena Easton, la Family (che poi sarebbe la band di Susannah Melvoin, sorella di Wendy, colei che per prima ha cantato Nothing compares 2 U, poi divenuta la mega hit di Sinead O Connor).
Non sembra, ma già molto è stato detto. Polistrumentista autodidatta, autore di quello che viene considerato il miglior album del 900, aspirante pretendente al trono di Re Del Pop in antagonismo con Michael Jackson, pigmalione di tutta una genia di cantanti donne di bella presenza, capace di scrivere casualmente mega hit e di usare un linguaggio in cui To You si scrive 2 U ben prima dell’invenzione di Whatsapp. Non basta, ovviamente, perché Prince ha fatto molto ma molto di più. Ha praticato tutti i generi musicali inerenti al mondo black, dal funky al rap, passando per il jazz, il blues, l’R’n B, ma anche il pop anglosassone, il rock’n roll, il suol, il gospel, spesso andando a contaminarli ben prima che queste contaminazioni diventassero di moda, lanciando mode cui gli altri sono arrivati anni, decenni dopo. Per anni Prince ha indicato la strada, e gli altri la hanno seguita. Poi la sua genialità si è fatta talmente pesante da tenerlo come schiacciato, defilato rispetto al mainstream, stregone pericoloso rinchiuso nella torre del castello. Nello specifico il castello è il suo studio storico, il Paisley Park, a Minneapolis, e a tenere le chiavi è lui stesso. È lì, ai Paisley Park Studios di Minneapolis che, vuole la leggenda, Prince passi buona parte del suo tempo, non uscendo mai, se non quando costretto, durante le ore del giorno. Lì sono custoditi migliaia e migliaia di brani, vuole sempre la medesima leggenda. Roba genialissima, si presume. Da lì sono usciti anche i due album gemelli, come gemella è Minneapolis della contigua St Paul, PLECTRUMELECTRUM, a nome 3rdeyegirl, combo rock al femminile fatta eccezione per il solo Prince, e Art official age, progetto più marcatamente pop che ha visto il nostro per la prima volta affiancato alla scrittura e alla produzione dall’esordiente Joshua Welton, a sua volta polistrumentista e attore. Ennesima dimostrazione, questa doppietta, di come Prince sia vivo e vegeto, e generosamente portato a dilagare, magari non il Re del Pop, ma sicuramente lo stregone nella torre del castello.