Una lettera di Ludovico Fulci su Sette, settimanale del Corriere della Sera, di qualche tempo fa ha rinnovato alcune domande sul Ponte sullo Stretto, un affare che, pur sepolto nell’oblio e ricordato soprattutto per la voragine creata nel debito pubblico, appassiona ancora oggi alcuni membri del Governo (oggi dimissionari, ma per altre ragioni) e ne appassionerà altri domani. Il Fulci, che si presenta come dirigente dell’Ufficio Commerciale italiano a Tokyo nel 1990, dice di avere accompagnato allora un’autorevole delegazione giapponese, gente che di ponti se ne intende, venuta in Italia per valutare la partecipazione al progetto da parte di aziende nipponiche. E dichiara: «Le conclusioni (dei giapponesi, ndr) erano che il ponte non era fattibile per diversi motivi. Il principale di questi era che i forti venti, che con molta frequenza agiscono sullo stretto di Messina, avrebbero obbligato a lunghe chiusure del ponte stesso, oltre che a procurare seri danneggiamenti all’opera». Invero, non era un dubbio con gli occhi a mandorla e basta, perché parecchi esperti nostrani lo condividevano da tempo, ma chi osava discutere era etichettato come detrattore delle magnifiche sorti dell’ingegneria nazionale.
E poi, già nel 1955 uno studio geofisico della Regione Sicilia – commissionato alla Fondazione Lerici del Politecnico di Milano e condotto da Luigi Solaini e Roberto Cassinis assieme al Servizio Geologico d’Italia – aveva indicato come la natura delle formazioni geologiche, tanto sulle sponde che sul fondo non fosse proprio il massimo. Le proprietà meccaniche dei sedimenti e della roccia cristallina erano, infatti, modeste fino a parecchie centinaia di metri sotto il piano di campagna e sotto il fondo dello stretto. Insomma, un ponte esposto alle tempeste di vento e, per di più, con i piedi malfermi poneva seri problemi di fattibilità.
Perché allora si è proseguito, costituendo il Gruppo Ponte Messina S.p.A. già in quel lontano 1955? E avanti fino al Concorso Internazionale di Idee del 1969 che premiò 6 progetti senza che nessuno di questi progetti avesse previsto la campata unica? Alla costituzione della Società concessionaria Stretto di Messina S.p.A. nel 1981. Ai progetti del 1986 e del 1992. Al contratto con Eurolink, che vinse la gara d’appalto come contraente generale per la costruzione del ponte e iniziava le attività di progettazione definitiva ed esecutiva nel 2009, affidando l’anno dopo all’archistar Libeskind il progetto delle principali strutture architettoniche connesse al ponte… Fino alla messa in liquidazione di Stretto di Messina S.p.A. nel 2012 (Legge 221/12) per k.o. tecnico… Perché tanta tenacia?
Questa storia è un ‘mistery’ al quale hanno contribuito generazioni di accademici che hanno marciato compatti verso la meta, senza esalare neppure un timido sospiro in merito ai dubbi che qualche disfattista poneva sottovoce. Generazioni di ingegneri hanno calcolato e ricalcolato travi e pilastri, passando dal regolo e dal tecnigrafo al computer aided design (Cad) senza porsi domande scomode. Generazioni di economisti hanno magnificato i benefici del corridoio da Amburgo a Palermo senza investirci un euro in proprio né un serio confronto con i costi. Una generazione di politici – più longeva di accademici e ingegneri ed economisti messi assieme – ci ha marciato e, magari, ci marcerebbe ancora e, forse, ci marcerà di nuovo. Perché l’Italia ha bisogno di sogni impossibili e sarà sempre incinta di progetti del Ponte sullo Stretto, battezzato Italy’s bridge to nowhere da The Independent; così come la povera Adelina di Ieri, oggi, domani, per non essere arrestata, ricorreva a sempre nuove maternità. E dei danni alla collettività (economici, morali e culturali) di questo ‘mistery’ nessuno risponderà mai.