La prima sentenza in cui viene citato è quella contro Pino Cillari, considerato un faccendiere della camorra: è il 14 luglio del 1987 e il concorso esterno in associazione mafiosa fa il suo debutto nelle carte della corte di Cassazione. Un esordio plumbeo dato che in quella sentenza la Suprema corte smentisce l’esistenza di quel reato, nato praticamente nell’ordinanza sentenza del primo Maxi processo contro Cosa Nostra, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una fattispecie nata sommando gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, ideata per perseguire i cosiddetti “colletti bianchi”, soggetti che non sono organici all’organizzazione criminale, ma che contribuiscono attivamente alle attività.
A rivendicarne la paternità anni fa arrivò il magistrato Giuseppe Ayala, pubblica accusa al Maxi processo: “Su certi imputati – ricordava il magistrato in un’intervista a Radio Radicale – non avevo assolutamente elementi per dimostrare che fossero organicamente interni all’associazione mafiosa, tuttavia il semplice reato di favoreggiamento era insufficiente: così mi inventai il concorso e ne parlai con Falcone ”. Poi la marcia indietro: “Guardando tutto quello che è successo dopo,– continuava Ayala – tutte le polemiche che sono nate, tutte le incertezze, oggi rivedrei quella scelta”. E in effetti il concorso esterno in associazione mafiosa da intuizione giuridica si è trasformato subito in una vera e propria guerra di pensiero tra magistrati, giuristi e avvocati.
Diverse le assoluzioni nel corso degli anni, ma anche parecchie condanne. È stato assolto dall’accusa di concorso esterno a Cosa Nostra l’ex ministro Saverio Romano, scagionato in appello fu invece l’ex deputato di Forza Italia Gaspare Giudice. Ha fatto scuola poi la sentenza degli ermellini sull’ex ministro democristiano Calogero Mannino (assolto in appello dopo un rinvio), con una motivazione che restringe i casi di applicazione del reato, ma è importante anche quella di Corrado Carnevale (appello annullato senza rinvio). Motivando l’annullamento della condanna d’appello del giudice soprannominato “Ammazzasentenze”, la suprema corte scrive che “la fattispecie concorsuale sussiste anche prescindendo dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita dell’associazione”: come dire che il concorso esterno esiste anche in condizioni di non emergenza, come invece stabilito nella sentenza Demitry nel 1994.
Lo stesso anno che fa da spartiacque, secondo l’ultima decisione della corte Europea dei diritti dell’uomo sul caso di Bruno Contrada: prima di quella data, per i giudici di Strasburgo, non esiste il concorso esterno, e quindi non può essere considerato un’imputazione valida. È per questo che Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni in via definitiva, spera in una sentenza favorevole da parte di Strasburgo, dato che la sua situazione è simile a quella di Contrada. L’ex senatore e l’ex numero tre del Sisde hanno un curriculum giudiziario paragonabile a quello di Ignazio D’Antone, l’ex questore che ha finito di scontare otto anni di carcere.
Liberi sono anche gli ex Dc Enzo Inzerillo e Franz Gorgone, unici politici insieme a Dell’Utri ad essere condannati per concorso esterno. È nel 1991 che il reato tanto criticato diventa oggetto scatenante di una furiosissima guerra: in quell’anno viene introdotto infatti il favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. È a causa di quell’accusa che si aprono le porte del carcere per Salvatore Cuffaro, non prima che la procura di Palermo si spacchi in due: il pm Gaetano Paci entra in polemica con i colleghi, che si rifiutano di contestare all’ex presidente il concorso esterno. Il quesito che divide la procura all’epoca guidata da Pietro Grasso è semplice: se a Mimmo Miceli, l’uomo che riferiva le confidenze di Cuffaro al boss Giuseppe Guttadauro, viene contestato il concorso, perché Cuffaro, che è l’origine di quelle “soffiate”, deve essere accusato di un reato minore? Una domanda alla quale i giudici non sono riusciti a rispondere, dato che dopo aver acquisito nuove prove, la procura provò a processare per concorso esterno Cuffaro, già detenuto per favoreggiamento aggravato. “Ne bis in idem” rispose il gip, come se il favoreggiamento aggravato e il concorso esterno fossero la stessa cosa. Contribuendo quindi ad alimentare confusione e polemica, intorno ad un reato che da anni divide giuristi, magistrati e avvocati.