Si guarderanno negli occhi e non avranno bisogno di parole, Enrico Pieri, 81 anni, e Andreas Schendel, 43. Il primo aveva 10 anni quando si nascose in un sottoscala per sfuggire alla furia nazista che a colpi di mitragliatrice gli stava ammazzando il padre, i nonni, gli zii, le sorelline e la madre, incinta di 4 mesi. Il secondo aveva 30 anni quando scoprì che lo zio Heinz, di cui nessuno in famiglia voleva parlare, altri non era che Heinrich Schendel, classe 1922, sergente della 16ma divisione corazzata Reichsführer-SS, uno dei 10 ufficiali delle Schutzstaffeln che nel 2005 il tribunale militare di La Spezia condannò all’ergastolo per la strage di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944, in cui furono massacrati 560 civili, tra cui numerosi bambini. La pena non mai stata scontata perché la Germania non ha mai concesso mai l’estradizione.
Il superstite di Sant’Anna e il nipote di uno dei suoi aguzzini si incontreranno a giugno. Schendel, che è uno scrittore di libri per bambini, visiterà per la prima volta Sant’Anna di Stazzema sui monti della Versilia. La stessa Sant’Anna in cui suo zio negò sempre di essere andato. Lo zio Heinrich negò sempre il suo legame con la strage. Prima di essere trasferito in Italia, nell’estate del 1944, Schendel era stato con la divisione Das Reich delle SS nei Balcani, quindi in Russia. Smentì sempre, durante il processo della magistratura militare italiana, di essere coinvolto nella strage: in quei giorni, sosteneva, si trovava come istruttore alla scuola tedesca di Stralsund. Ma la sua versione non ha convinto i giudici, che lo hanno condannato all’ergastolo, come gli altri 9 ufficiali della sua divisione. Cinque di essi fecero appello (respinto nel 2006 dalla Corte militare di Appello di Roma), ma non Heinrich Schendel.
Il percorso che ha portato questo incontro – storico, a suo modo – è iniziato quando Pieri ricevette una lettera ricevuta dalla Germania e pubblicata un anno fa da ilfattoquotidiano.it: “Lei non mi conosce e non so se ha voglia di leggere la mia lettera. Mi chiamo Andreas Schendel, ho 42 anni e sono un nipote di Heinrich Schendel, uno degli assassini di Sant’Anna”. Pieri rispose invitandolo in Versilia. Ma Schendel non rispose più. Fino a quando, grazie a un’unione di intenti tra Pieri, ilfatto.it, l’associazione Teatro Rumore, la giornalista tedesca Julia Amberger e un’amica tedesca di Sant’Anna, Liesel Bisanti, non è stato invitato a partecipare al festival Rumore di Pace di Torre del Lago. E finalmente ha accettato.
Per la prima volta, Andreas, che in patria è uno scrittore di libri per bambini (il suo ultimo romanzo è Mit Licht nach Schatten Werfen, una storia che tratta anche il rapporto con la memoria familiare) parla di sé e dello zio SS, a ilfattoquotidiano.it. Ripercorre il suo percorso con cui ha scoperto la verità, ricorda la difficoltà a parlare in famiglia dello zio assassino, racconta dei silenzi e degli incubi di suo padre. “L’orrore nazista – dice – è paragonabile a quello portato dall’Isis”.
Andreas Schendel, che tipo di persona era tuo zio Heinrich?
A essere onesto l’ho incontrato solo poche volte ai funerali, che erano l’unico momento in cui la nostra famiglia di origine si riuniva. Apparentemente non c’era niente di particolare in lui. Ricordo meglio suo padre, che visitavamo più spesso. Dopo la guerra tutta la famiglia si è allontanata, Heinrich e i fratelli più giovani hanno rotto ogni contatto. Dicono che fosse ‘un buon padre’ e la sua famiglia ancora vuole credere alla sua innocenza. Anch’io, all’inizio, ad esempio quando ho letto di quell’unico soldato a Sant’Anna che sparò in aria lasciando che un bambino scappasse, ho pensato: “Dio, vorrei che fosse lui mio zio”.
Cosa è successo a tua nonna?
La madre di Heinrich morì quando lui aveva 17 anni, alcuni dicono fosse un suicidio, suo padre si sposò alla svelta con un’altra, con cui i bambini non andavano d’accordo. Fu esattamente questo il motivo per cui Heinrich e suo fratello Günther si unirono alle SS. Anche se erano ancora minorenni, allora era legale. Loro padre era fin dagli albori un membro del Partito Nazionalsocialista e aveva dato lezioni di mitragliatrice ai compagni di partito intorno alla metà degli anni Trenta. Quindi si può dire che ci fosse una predisposizione.
Quanti anni avevi quando hai scoperto che tuo zio era nelle SS?
Circa 30, quando un fratello minore di mio padre riconobbe la casa di Heinrich in un telegiornale che faceva vedere delle dimostrazioni antifasciste lì di fronte. Poi lentamente ho scoperto la verità su Internet.
Tuo zio era ancora vivo quando lo hai scoperto?
Sì, è morto tre anni fa.
Quale fu la tua reazione?
All’inizio non era tanto una questione di ‘reagire’, perché la famiglia non parlava di nulla, il passato era lontano… Eppure era ancora vivo, anche nei piccoli dettagli della nostra quotidianità, penso al silenzio nel matrimonio dei miei genitori, che posso far risalire a quello che Alexander Mitscherlich chiamava ”l’incapacità di portare il lutto”, di lasciarsi andare emotivamente.
Quindi era qualcosa di cui la famiglia non poteva parlare…
Mio padre ha avuto e ha ancora un gran bisogno di parlarne. C’è una parte di lui che vorrebbe capire, guarire. Ma a dir la verità il lavoro, la vita di tutti i giorni l’hanno quasi sempre tenuto troppo occupato. O forse, al contrario, è meglio dire che si è sempre tenuto occupato, molto impegnato, tutta la vita. Immagina se tuo fratello fosse un assassino di massa. Hai parte degli stessi geni, sei cresciuto allo stesso modo. Questo ha trasformato mio padre in un uomo silenzioso che ha sempre nascosto le sue emozioni. E’ capace di amare ma non lo esprime mai direttamente. Dopo la morte di molti membri della famiglia sta iniziando ad aprirsi. Mi ha detto che a 73 anni ancora soffre di incubi del periodo nazista.
Immagina se tuo fratello fosse un assassino di massa. Hai parte degli stessi geni. Questo ha trasformato mio padre in un uomo silenzioso che ha sempre nascosto le sue emozioni. Mi ha detto che a 73 anni ancora soffre di incubi del periodo nazista.
Come sei arrivato a spedire una lettera a Enrico Pieri?
Credo fosse per rompere il silenzio. E penso sia stato più facile per me relazionarmi con il lato delle vittime piuttosto che confrontarmi con quello dei carnefici.
Nella lettera a Enrico Pieri hai raccontato che da piccolo, quando giocavi nel bosco, avevi strane visioni di donne e bambini morti e te ne sentivi responsabile. Come lo spieghi?
Sì, nelle mie fantasie ero colpevole di averli uccisi. Credo sia qualcosa che si forma da un milione di particelle minuscole della vita di tutti i giorni. Ad esempio in tv, in un film di guerra un bambino muore. Di solito i genitori farebbero un qualche commento, guardando la scena con i propri bambini. I miei no. Quando, da adolescente, vidi un mio amico morire in un incidente, i miei genitori non dissero una parola con me. Semplicemente non ne erano capaci. I bambini si sentono responsabili per un sacco di cose che gli capitano intorno, hanno antenne molto affinate per quelle che potremmo chiamare ‘vibrazioni’. Persino certi nomi erano tabù, forse in modo inconscio, e così acquisivano un grande significato. Da molto prima che sentissi parlare di Sant’Anna, il nome Anna per me era speciale. L’ho usato per un personaggio di un mio libro, una donna che perde il suo bambino. Una coincidenza? Non che fossero tabù espliciti, semplicemente erano cose che si evitavano. Ad esempio se una vicina di casa si chiamava Anna, ci saremmo riferiti a lei chiamandola come “la moglie di” piuttosto che usare il suo nome.
Come ti sei sentito quando hai ricevuto una risposta da Sant’Anna?
All’inizio ho soppesato la busta nella mano, mi sembravano due pagine, e da fuori vedevo che erano caratteri scritti a macchina. Era esattamente come l’avevo scritta io a Enrico e quindi il mio primo pensiero è stato: “Dio, me l’hanno rispedita indietro”. Poi ho tergiversato una settimana più o meno prima di leggerla.
A quel punto hai deciso di non rispondere. Perché?
Mi pareva che fosse stato detto tutto quello che c’era da dire. Mi sentivo sollevato sapendo che le mie parole erano state ascoltate. E poi sono a metà della mia vita, con la solita miriade di problemi personali, quindi in qualche modo ho pensato: “Okay, ho fatto ciò che potevo, adesso passiamo oltre”. Ma forse, così come in questa intervista, avevo anche paura che il modo in cui Sant’Anna e la guerra hanno influenzato la vita dei miei genitori e quindi la mia, fosse difficile da spiegare a parole, soprattutto in poche righe. Per farla breve, mi sento o appaio come una “persona informata sui fatti che soffre di terzo riflesso”. Niente di desiderabile.
Poi hai ricevuto un’email in cui ti si chiedeva di venire in Italia e di incontrare Enrico Pieri in un progetto giovanile. Ti ci è voluto un po’ per rispondere, ma hai accettato. Perché?
Dovevo pensare onestamente a come avrei potuto contribuire. Ho davvero qualcosa da dare? Qualcosa di costruttivo, che arrivi dal passato ma che sia presente? Ancora me lo chiedo. Chi aiuterei? Sono un istruttore di autodifesa. Il padre di Heinrich picchiava sua moglie davanti ai bambini al punto che lei dovette andare all’ospedale con le costole rotte. Più di una volta. Scelsi di voler imparare il karate molto prima di sapere queste cose. Mio padre non mi ha mai picchiato una sola volta. Ma ho ereditato questa paura della violenza fisica.
Tu e tuo padre non c’entrate niente con ciò che Heinrich fece: qual è quindi il valore di questo viaggio e dell’incontro con Pieri?
Gli eventi e le persone non sono mai scollegati tra loro, specialmente quando avviene un omicidio, questo influenza e cambia anche la famiglia dell’assassino. Incontrare il signor Pieri? Chiedetemelo dopo. Per quanto possa sembrare strano, vorrei toccarlo delicatamente. Solo sfiorarlo appena, il braccio, la mano. Ed essere toccato da lui. Credo che forse non abbiamo poi bisogno di molte parole.
Penso che tutto possa essere raccontato ai bambini. Dobbiamo trovare le parole adatte. Le parole a volte aiutano a guarire
Sei un autore di libri per bambini. Sant’Anna potrebbe mai essere raccontata ai bambini?
Penso che tutto possa essere raccontato ai bambini. Perché la vita dei bambini è piena di ogni cosa, sperimentano cose che noi non ci augureremmo mai per loro. Quindi dobbiamo trovare le parole adatte. Le parole a volte aiutano a guarire, a chiarire il problema del senso di colpa. Come ho detto, i bambini tendono a sentirsi responsabili e spesso in colpa per quello che accade loro. Forse è il modo in cui veniamo cresciuti.