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25 aprile, “io messo al muro con la famiglia: mi salvai perché l’SS sparò in aria e ci fece scappare”

Quella di Enio Mancini è una delle storie di Sant'Anna di Stazzema: oggi ha 77 anni. "C'erano anche gli italiani. Una ragazza del paese li riconobbe l'anno dopo e gli si avventò addosso per strada"

di Ilaria Lonigro

Se li ricorda, il volto coperto per non farsi riconoscere. Parlavano italiano, peggio: versiliese. Erano delle loro parti, quelli che aiutavano la 16esima divisione corazzata delle SS portando a Sant’Anna le munizioni, mettendo i nastri alle mitragliatrici, facendo fuoco. Chi lo fece perché costretto, venne ucciso a sua volta subito dopo. Ma alcuni erano lì per scelta: i collaborazionisti, in abiti civili, e gli italiani arruolati da volontari, indosso la divisa col marchio delle due Sig.

Enio Mancini aveva 6 anni quel 12 agosto 1944. Quella mattina di 71 anni fa, con la sua famiglia fu messo contro un muro, insieme a un altro centinaio di persone. I treppiedi già davanti a loro, pronti per la carneficina. All’ultimo un ufficiale nazista sopraggiunse e ordinò di spostare tutti nella località di Valdicastello, comune di Pietrasanta. Incolonnati, i civili vennero affidati al controllo di un unico nazista, un ragazzo giovanissimo, che, rimasto solo con loro, gli ordinò a gesti di stare zitti e di scappare. Si erano già allontanati quando sentirono una raffica di mitra alle loro spalle. Si voltarono: il soldato stava sparando in aria“.

Con i nazisti c’erano anche gli italiani. “Io ero un bambino, per quanto valgo ho visto almeno un paio di italiani quella mattina. Spararono alla mucca. ‘Brutta mostra, non vuoi mori’?’ le dissero in dialetto versiliese, si erano coperti il volto con le bande mimetiche. A me e al mio gruppo ci traducevano gli ordini dal tedesco: ‘Via, svelti, andate verso Valdicastello‘. Erano ordini in italiano perfetto. Anche due sorelle raccontano che sentivano parlare in versiliese. Un’altra sopravvissuta, Maria Luisa Ghelardini, fece pure i nomi perché era grandicella. Li aveva riconosciuti”.

Fu un anno dopo, a Pietrasanta, era giorno di mercato. Maria Luisa aveva 35 anni. E in mezzo alla folla lo vide. “Gli si avventò addosso. Aveva riconosciuto in quel pietrasantino, Aleramo Garibaldi, quello che aveva azionato la mitragliatrice. I carabinieri lo portarono a Lucca, fu interrogato. Ma lui disse che a Sant’Anna era solo un portatore di munizioni e che non prese parte attiva al massacro. A Sant’Anna furono uccise anche le sue due bambine e la moglie, cosa vera. Disse: ‘Come potevo essere partecipe?’. Lo rilasciarono. Solo dopo fu appurato che lui le aveva nascoste in una vecchia galleria delle miniere dell’Argentiera, per metterle al sicuro. Però queste bimbe si spaventarono, uscirono, e quando i soldati sono arrivati non sono stati a vedere di chi fossero figlie, tra l’altro lui non guidava quel gruppo, e le uccisero. Gli altri portatori furono tutti ammazzati, a lui i tedeschi dettero un lasciapassare. Pertanto anche se fu scagionato, la gente continuò a vederlo di malocchio e lui si rifece una vita in provincia di Terni“.

Due anni fa Mancini, cavaliere al merito della Repubblica italiana e Medaglia al merito della Germania per il suo impegno a favore della memoria, ha ricevuto una telefonata. “Un ragazzo, un certo Friedrich Holzer, mi diceva che suo nonno era Heinrich Holzer, un soldato che era stato a Sant’Anna e che lì aveva risparmiato dei civili. A Sant’Anna quel giorno si verificò più di un episodio positivo, quindi non so se fosse lo stesso soldato che salvò me. Chiesi a quel ragazzo perché il nonno non mi avesse più cercato, perché non fosse tornato a Sant’Anna. Mi rispose che aveva avuto paura di parlare, aveva saputo che c’erano i processi in corso, pertanto aveva paura di essere coinvolto. Se vedessi una sua foto saprei riconoscerlo? Impossibile. Eravamo così spaventati che se avessi saputo che era bravo probabilmente l’avrei guardato meglio. Ma in quel momento eravamo terrorizzati”.

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