Un’ora non di più. Cinquecento incappucciati non di più. Ma tanto basta perché in serata Milano si scopra devastata. Una lunga ferita aperta nel cuore della città, tra via Carducci e via Pagano. In quelle strade solitamente silenziose, dentro quelle case borghesi, a due passi dalla chiesa di Santa Maria delle Grazia, dal cenacolo Vinciano e dal collegio San Carlo, la scuola dei figli della cosiddetta Milano bene. Oggi, però, la fotografia è cambiata. E la fotografia simbolo di questa giornata di guerriglia urbana è quella distesa di panni neri abbandonati lungo la strada, e poi mazze, pietre, caschi, lacrimogeni ancora accesi, fumo nerissimo che sale per decine di metri oltre i palazzi. Qui in via Pagano, dove la battaglia finisce e gli incappucciati, smessa la divisa, si confondono tra i manifestanti. Azione perfetta, studiata, militare. Perché così doveva andare nei piani degli antagonisti. E così è andata: nessuno scontro con la polizia, solo semplice e brutale devastazione. In Italia capitò solo al G8 di Genova. In Europa l’ultima volta il 18 marzo 2015 a Francoforte durante l’inaugurazione della nuova sede della Banca centrale europea.

E così, poche ore dopo, il bottino dei fermati non supera la decina. “Tutti italiani”, rende noto la questura. Sono di più le auto bruciate durante il tragitto: quattordici, tra via Carducci e via Ariosto. In via Leopardi una viene ribaltata e poi incendiata. Antagonismo di matrice europea, dunque. E del resto gli stranieri tra i cinquecento sono in tanti. Antagonismo che non punta allo scontro con le forze dell’ordine, ma solamente al caos. Come fu per Genova. Il resto è una gestione dell’ordine pubblico che, al di là delle devastazioni, ha seguito il piano di cui nei giorni scorsi già si ragionava al quarto piano della procura di Milano. La scelta era contenere i rischi, mettendo in conto danni anche ingenti, ma senza mettere a repentaglio l’incolumità dei cittadini. Così è andata. E se così doveva andare, allora, va subito detto, che l’ordine pubblico è stata gestito come si era deciso di fare. 

I VENTIMILA DI PIAZZA XXIV MAGGIO
Riavvolgiamo il nastro. Ore 14 in piazza XXIV maggio. Tanta gente. Ventimila, anche di più. Cielo grigio e musica alta. Atmosfera tipica da MayDay Parade. Non solo studenti come due giorni fa, ma realtà diverse: lavoratori, anarchici, centri sociali. Gli incappucciati non si vedono. Solo s’intuiscono da piccoli gruppi che indossano la divisa classica: abiti scuri e zainetto sulle spalle. Molti parlano straniero. Ci sono spagnoli, francesi, greci, tedeschi. Non mancano gli italiani. Veneti soprattutto. Milanesi anche: una trentina dal Corvetto. Si parte a rilento. Il percorso è breve. La questura ha tagliato la parte che avrebbe dovuto portare i manifestanti verso piazza Duomo. Una scelta decisamente azzeccata.

VIA DE AMICIS: SMASH CAPITALISM
A metà corteo: una bandiera porta scritto “Smash capitalism”. E’ quella degli stranieri. Gli stessi che il 30 aprile in viale Majno hanno dato l’assalto alla sede di Manpower. Sono trenta non di più. E soprattutto sembrano tranquilli. Ora il corteo scorre lungo via De Amicis. Qualcosa però sta succedendo. Cinquecento metri a ritroso, oltre al camion del centro sociale il Cantiere, dietro a un altro mezzo i neri si sono ricompattati. Nascosti dal corteo e senza il controllo delle forze dell’ordine hanno indossato i caschi. Compaiono mazze e martelli, e soprattutto zaini pieni. Oltre piazza Resistenza Partigiana le prime azioni. Vengono colpite diverse vetrine. Ogni metro di strada, però, quella macchia nera s’ingrossa. Davanti il cordone di bastoni, dietro il resto. Si risale verso via Carducci in direzione di piazza Cadorna. Il disastro è a pochi metri, ma ancora non si percepisce. Altri negozi danneggiati.

VERSO PIAZZA CADORNA: GUERRIGLIA URBANA
All’incrocio con corso Magenta inizia l’azione. Il cordone dei neri svolta a sinistra facendo muro davanti alle forze dell’ordine che stazionano a un cinquantina di metri. Un incappucciato urla: “Fermi, fermi, adesso”. Pochi secondi, il primo botto devastante. Ne seguiranno decine. Si lancia di tutto. Prima contro il bar Magenta e nella via laterale dove stazionano le forze dell’ordine. Contemporaneamente un altro gruppo si scaglia contro le sedi di due banche: il banco Desio e Cariparma che stanno all’angolo con via Vincenzo Monti. Di nuovo dall’altra parte verso via Meravigli, bidoni dell’immondizia in mezzo alla strada. Il fumo è fitto. I lacrimogeni di polizia e carabinieri piovano a manciate. Respirare è impossibile. L’azione qui dura almeno quindici minuti. In largo D’Ancona arriva di tutto e da tutte le parti. Gli zaini vengono svuotati. Si caricano le molotov, si raccolgono bottiglie, si lancia. Pochi metri più in là due vetrine di un negozio vengono date alle fiamme. Dall’altra parte della strada bruciano due auto.

I neri ora sono in piazzale Cadorna. Il grande corteo è definitivamente spaccato in due. Chi stava avanti prosegue. Gli altri attendono dietro. Le forze dell’ordine seguono gli antagonisti che proseguono nel loro percorso di devastazione. Scendono per via Boccaccio in direzione via Pagano. La strada ora e dritta. Ogni metro è un colpo alla città. Altre auto bruciate. In piazza Virgilio la polizia abbozza una carica. Nulla di fatto. In piazza Giovine Italia verso via Aurelio Saffi altre quattro auto vengono date alle fiamme. Bruciano una accanto all’altra. Il rischio che esplodano è altissimo. In piazza Conciliazione la polizia ferma un italiano. Un dirigente della polizia di Stato si raccomanda: “Non deve essergli torto un capello”. La tensione è altissima, l’adrenalina scorre veloce. Un altro dirigente urla: “Carichiamo? Ci proviamo? Ve la sentite?”. Sono parole contro volti tesi, impauriti anche, sorpresi, forse, da una violenza di piazza che in Italia non si era mai vista. Il reparto Celere, però, non avanza. Si prosegue nella strategia di accompagnare i manifestanti.

VIA PAGANO: GLI INCAPPUCCIATI SI DILEGUANO
In via Alberto da Giussano il fumo nero delle auto bruciate si mescola a quello bianco dei fumogeni. I neri ora ne accendono a decine. La città scompare, non si vende oltre un metro. L’azione è studiata. Dentro al fumo, i neri abbandonano armi e divise. Pochi secondi è tornano ad essere manifestanti qualsiasi. Impossibile distinguerli. Ora corrono dentro al parco oltre via Pagano. E’ l’ultima tappa. A questo punto la polizia carica. E’ caccia all’uomo. Pochi minuti appena. Viene fermata una ragazza. Intanto il resto del corteo è già verso piazza Buonarrotti e oltre verso la zona dello stadio Meazza. Arriva la notizia che undici tra carabinieri e reparto mobile sono rimasti feriti. Tra questi, ci piace sottolineare, c’è anche quel dirigente che poco prima si era raccomandato di “non torcere un capello” al fermato. E’ ferito. E’ stato il primo a partire e ad essere colpito. Era in piazza con i colleghi, lui che nel lavoro quotidiano dirige il commissariato di Quarto Oggiaro, uno dei quartieri più complicati della città.

Corteo chiuso poco prima delle 18,30. La giornata si chiude. Non prima di aver fatto a ritroso il percorso del disastro. Ecco Milano. Che pochi minuti dopo la ferita torna a respirare. Ecco la città di Expo sventrata, piegata, sanguinante. Sacrificata alla rabbia. Dal potere. Quello che poche ore prima con le parole di Matteo Renzi apriva l’Esposizione universale. Quella che ore dopo, indossato lo smoking, si è accomodata alla Scala per la Turandot. Valgano per tutti, le parole del ministro Dario Franceschini: “Non saranno certo poche centinaia di violenti a rovinare questa festa”. Festa?

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