Nel giorno della Festa del Lavoro, Taranto è il nostro simbolo dei mille luoghi dell’Italia industriale dove una classe dirigente indegna del suo nome ha fatto la festa al lavoro. La cosa più odiosa è l’arroganza con cui spiegano che non c’è futuro per l’acciaio a una comunità a cui essi stessi – o i loro padri o i loro padrini – assegnarono quel lavoro e quella identità.
Oggi, donne e uomini di Taranto, si sentono dire che quel lavoro e quella identità sono un vizio assurdo, un’insopportabile pretesa. E che la crescente miseria che li assedia è affar loro. Se la sono cercata.
La più grande acciaieria d’Europa fu portata a Taranto come una promessa di prosperità. La scelta tra lavoro e salute è stata a lungo sottintesa, prima di diventare ricatto inderogabile. E il lavoro con una mano veniva donato e con l’altra rubato. Politici, sindacalisti, boiardi di Stato, imprenditori e manager privati: tutti hanno fatto la loro parte. Quando l’Ilva era statale, fino al 1995, l’hanno usata come bancomat: politici e sindacalisti scaldavano all’altoforno le loro clientele; i boiardi eseguivano gli ordini di chi li aveva nominati per meritare nuovi e più lucrosi incarichi; le imprese private si rifornivano di ottimo acciaio (perché a Taranto lo hanno sempre saputo fare) a prezzi di saldo. Tanto qualcuno avrebbe pagato. E infatti ha pagato il lavoro di migliaia di operai e tecnici capaci e onesti, che per anni si sono spezzati la schiena, per sé e per i furbi, e per i portaborse stipendiati dall’Ilva.
Finché un giorno gli stessi che si erano spolpati per bene l’acciaieria hanno detto che bisognava privatizzare di corsa: la gestione pubblica dell’industria era inefficiente. Certo, sapevano quel che dicevano. Hanno regalato l’Ilva a un amico di Silvio Berlusconi, Emilio Riva, a cui per pagarla sono bastati i primi due anni di profitti. Riva l’ha spolpata a modo suo, pagando i politici perché fingessero di non vedere che non investiva più un euro, mentre i profitti si gonfiavano e volavano in Svizzera. Per vent’anni, Riva ha sfidato la giustizia, scrollando le spalle davanti alle condanne per inquinamento. Sindacalisti sordi e ciechi, politici muti, economisti a gettone, tutti inginocchiati, spacciavano per lungimirante e saggio il cedimento al ricatto: o così o la miseria.
Mentre facevano la festa al lavoro, non un uomo della cosiddetta classe dirigente ha fiatato, sapendo benissimo che sarebbe finita male. Oggi supertecnici con master in vigliaccheria si chiamano fuori: facciamo il possibile, ma è andata male e non è colpa di nessuno. A pagare sarà Taranto. Lasciata sola a difendere, e oggi a festeggiare, il lavoro che le stanno rubando.
Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2015