Lavorare in carcere, grazie al terzo settore. Un lusso per pochi detenuti, una possibilità ulteriormente ridotta dalla scarsità di fondi e dagli ostacoli burocratici denunciati dagli addetti ai lavori. Infatti, anche le cooperative che riescono a passare le mura dei penitenziari hanno una vita tutt’altro che facile, costrette a vedersela con risorse insufficienti e a licenziare dipendenti. Il tutto mentre le pratiche virtuose – che certo non mancano – sono messe all’angolo.
Pochi detenuti al lavoro per le coop. “E il carcere diventa scuola di delinquenza” – Ma partiamo dai numeri. Secondo i dati del ministero della Giustizia, alla fine del 2014 2.324 detenuti lavoravano per un soggetto esterno al carcere e di questi solo 707 erano dipendenti di cooperative sociali. Una goccia nel mare, se si pensa che alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria lavoravano più di 12mila reclusi. “Per difficoltà organizzative e burocratiche – si legge nell’ultimo rapporto dell’Osservatorio Antigone, da sempre impegnato sul fronte carcerario – le imprese faticano moltissimo a entrare in carcere”. Il risultato è una presenza trascurabile delle aziende all’interno dei penitenziari. Al tempo stesso, spiega il rapporto, i 12mila dipendenti dell’amministrazione carceraria portano avanti un lavoro frammentato e mal retribuito. “Negli ultimi anni, i posti di lavoro sono stati notevolmente frazionati, con una conseguente riduzione degli orari di lavoro e della spesa per l’amministrazione penitenziaria – si legge nel documento – Il numero assoluto dei lavoranti nell’anno è quindi rimasto costante, ma il budget speso per il lavoro dall’amministrazione penitenziaria è calato moltissimo. Con conseguente riduzione degli stipendi. Si è passati dai 71,4 milioni del 2006 ai 49,6 del 2013″. “Noi cerchiamo di professionalizzare il detenuto, favorendo un suo reinserimento lavorativo una volta uscito dal carcere”, spiega Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Giotto, cooperativa attiva all’interno delle carceri (rinomati i dolci prodotti in quello di Padova). “Nei lavori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, invece, non c’è nulla di tutto questo, mancano le figure adatte. Non è un lavoro, ma un sussidio diseducativo. E così si perde la funzione rieducativa della pena: le carceri diventano scuole di delinquenza“.
Tante richieste, pochi fondi. E le cooperative devono licenziare – Ma anche chi riesce a entrare in carcere poi non ha certo vita semplice. La legge Smuraglia, che risale al 2000, prevede sgravi fiscali per le aziende e le cooperative sociali che assumano detenuti. Per il 2015, imprese e coop hanno fatto richiesta al governo di agevolazioni per un totale di poco superiore a 9 milioni di euro. Peccato che prima un decreto legge e poi una nota del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) abbiano quantificato in 5,9 milioni di euro la cifra disponibile per finanziare il credito d’imposta. La doccia fredda è arrivata da una circolare del ministero della Giustizia, datata dicembre 2014: dopo avere constatato “una richiesta superiore del 34,71% rispetto alla reale disponibilità finanziaria”, il documento spiega che “si rende necessario procedere alla rideterminazione degli importi fruibili in misura proporzionata alle risorse stesse”. Insomma, tutte le 220 imprese e cooperative hanno subito una riduzione di un terzo rispetto alle proprie domande. “Non è stata verificata la consistenza delle varie attività – spiega Boscoletto – Hanno fatto richiesta di agevolazioni fiscali anche molte imprese nuove, alcune con progetti inesistenti. Il risultato è che si è proceduto a tagli lineari nei confronti di tutte le realtà. Con il risultato di penalizzare le attività consolidate e determinare decine di licenziamenti in tutta Italia”.
Il caso del servizio mensa – A questo colpo, si aggiunge un’altra batosta per le cooperative in carcere. Da gennaio in dieci istituti italiani il servizio mensa è stato tolto alle imprese sociali che lo gestivano da dieci anni, producendo lavoro per 170 detenuti e 40 operatori, per tornare in capo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il progetto, nato come sperimentazione, è stato finanziato in questi anni dalla Cassa delle ammende, fondo del Dap alimentato dalle sanzioni comminate dai tribunali. Ma quest’anno, dopo lo scandalo Mafia Capitale che ha visto al centro una coop attiva anche al reinserimento degli ex carcerati, è arrivato lo stop agli stanziamenti. Il viceministro della Giustizia Enrico Costa ha spiegato che i contributi devono essere “limitati nel tempo e per progetti che, in prospettiva, prevedano una reale concreta possibilità di continuità autonoma, non assistita da ulteriori sovvenzioni“. Eppure, da anni le cooperative chiedevano che, alla luce dei risultati positivi riconosciuti dallo stesso dipartimento, il progetto passasse da sperimentale a strutturale. Così non è avvenuto e l’esperienza è stata chiusa, determinando il licenziamento di decine di detenuti. “Speriamo ancora – prosegue Boscoletto – nella promessa del ministro Andrea Orlando, che la chiusura del progetto sia solo un fatto temporaneo e si trovi il modo idoneo e più esteso di ripartire”.
L’esempio di Palermo: i detenuti riaprono un sito archeologico – Al di là dei diversi ostacoli da superare, il terzo settore vanta un universo variegato di realtà che si impegnano per il reinserimento sociale dei detenuti. Nel campo strettamente lavorativo e in quello del volontariato, fuori e dentro il carcere. Solo per citare alcuni esempi, a Milano c’è il laboratorio di moda della cooperativa Alice, in Puglia ci sono le borse confezionate da Made in carcere, nelle carceri di Padova, Busto Arsizio e Torino i detenuti producono dolci. E infine c’è la cooperativa Padre Nostro di Palermo. Qui il lavoro di quattro detenuti-volontari ha permesso alla cittadinanza di riscoprire un sito archeologico prima inaccessibile. Si tratta di un’area di otto chilometri quadrati, che contiene testimonianze della dominazione araba di Palermo. Negli anni Ottanta c’erano stati scavi, ma poi il sito era stato abbandonato all’incuria, diventando in parte un parcheggio abusivo. I detenuti del carcere Pagliarelli hanno restituito questo spazio alla città e ai turisti, con le bonifiche terminate nel maggio 2014, dopo un anno di lavoro. La comunità Padre Nostro, inoltre, coinvolge circa altri trenta carcerati in lavori di pubblica utilità, come accoglienza di minori in comunità, doposcuola, trasporto disabili, assistenza di anziani. “Abbiamo anticipato tutto di tasca nostra – spiega Maurizio Artale, presidente della cooperativa – La Regione Sicilia ci deve 1,5 milioni di euro circa per le attività degli anni 2013 e 2014. Se non arriveranno questi soldi, ci affosseranno definitivamente”.
Onlus & Dintorni
Lavoro in carcere, slalom del terzo settore tra burocrazia, pochi fondi e licenziamenti
I detenuti che lavorano per un soggetto esterno al carcere secondo gli ultimi dati sono solo 2.324, di cui solamente 707 come dipendenti di cooperative sociali. La legge Smuraglia prevede sgravi fiscali per chi assume, ma i finanziamenti disponibili si fermano a 5,9 milioni contro i 9 "prenotati": così 220 imprese e coop hanno subito tagli lineari e hanno dovuto licenziare. Da Milano a Napoli, però, ci sono anche casi virtuosi
Lavorare in carcere, grazie al terzo settore. Un lusso per pochi detenuti, una possibilità ulteriormente ridotta dalla scarsità di fondi e dagli ostacoli burocratici denunciati dagli addetti ai lavori. Infatti, anche le cooperative che riescono a passare le mura dei penitenziari hanno una vita tutt’altro che facile, costrette a vedersela con risorse insufficienti e a licenziare dipendenti. Il tutto mentre le pratiche virtuose – che certo non mancano – sono messe all’angolo.
Pochi detenuti al lavoro per le coop. “E il carcere diventa scuola di delinquenza” – Ma partiamo dai numeri. Secondo i dati del ministero della Giustizia, alla fine del 2014 2.324 detenuti lavoravano per un soggetto esterno al carcere e di questi solo 707 erano dipendenti di cooperative sociali. Una goccia nel mare, se si pensa che alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria lavoravano più di 12mila reclusi. “Per difficoltà organizzative e burocratiche – si legge nell’ultimo rapporto dell’Osservatorio Antigone, da sempre impegnato sul fronte carcerario – le imprese faticano moltissimo a entrare in carcere”. Il risultato è una presenza trascurabile delle aziende all’interno dei penitenziari. Al tempo stesso, spiega il rapporto, i 12mila dipendenti dell’amministrazione carceraria portano avanti un lavoro frammentato e mal retribuito. “Negli ultimi anni, i posti di lavoro sono stati notevolmente frazionati, con una conseguente riduzione degli orari di lavoro e della spesa per l’amministrazione penitenziaria – si legge nel documento – Il numero assoluto dei lavoranti nell’anno è quindi rimasto costante, ma il budget speso per il lavoro dall’amministrazione penitenziaria è calato moltissimo. Con conseguente riduzione degli stipendi. Si è passati dai 71,4 milioni del 2006 ai 49,6 del 2013″. “Noi cerchiamo di professionalizzare il detenuto, favorendo un suo reinserimento lavorativo una volta uscito dal carcere”, spiega Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Giotto, cooperativa attiva all’interno delle carceri (rinomati i dolci prodotti in quello di Padova). “Nei lavori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, invece, non c’è nulla di tutto questo, mancano le figure adatte. Non è un lavoro, ma un sussidio diseducativo. E così si perde la funzione rieducativa della pena: le carceri diventano scuole di delinquenza“.
Tante richieste, pochi fondi. E le cooperative devono licenziare – Ma anche chi riesce a entrare in carcere poi non ha certo vita semplice. La legge Smuraglia, che risale al 2000, prevede sgravi fiscali per le aziende e le cooperative sociali che assumano detenuti. Per il 2015, imprese e coop hanno fatto richiesta al governo di agevolazioni per un totale di poco superiore a 9 milioni di euro. Peccato che prima un decreto legge e poi una nota del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) abbiano quantificato in 5,9 milioni di euro la cifra disponibile per finanziare il credito d’imposta. La doccia fredda è arrivata da una circolare del ministero della Giustizia, datata dicembre 2014: dopo avere constatato “una richiesta superiore del 34,71% rispetto alla reale disponibilità finanziaria”, il documento spiega che “si rende necessario procedere alla rideterminazione degli importi fruibili in misura proporzionata alle risorse stesse”. Insomma, tutte le 220 imprese e cooperative hanno subito una riduzione di un terzo rispetto alle proprie domande. “Non è stata verificata la consistenza delle varie attività – spiega Boscoletto – Hanno fatto richiesta di agevolazioni fiscali anche molte imprese nuove, alcune con progetti inesistenti. Il risultato è che si è proceduto a tagli lineari nei confronti di tutte le realtà. Con il risultato di penalizzare le attività consolidate e determinare decine di licenziamenti in tutta Italia”.
Il caso del servizio mensa – A questo colpo, si aggiunge un’altra batosta per le cooperative in carcere. Da gennaio in dieci istituti italiani il servizio mensa è stato tolto alle imprese sociali che lo gestivano da dieci anni, producendo lavoro per 170 detenuti e 40 operatori, per tornare in capo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il progetto, nato come sperimentazione, è stato finanziato in questi anni dalla Cassa delle ammende, fondo del Dap alimentato dalle sanzioni comminate dai tribunali. Ma quest’anno, dopo lo scandalo Mafia Capitale che ha visto al centro una coop attiva anche al reinserimento degli ex carcerati, è arrivato lo stop agli stanziamenti. Il viceministro della Giustizia Enrico Costa ha spiegato che i contributi devono essere “limitati nel tempo e per progetti che, in prospettiva, prevedano una reale concreta possibilità di continuità autonoma, non assistita da ulteriori sovvenzioni“. Eppure, da anni le cooperative chiedevano che, alla luce dei risultati positivi riconosciuti dallo stesso dipartimento, il progetto passasse da sperimentale a strutturale. Così non è avvenuto e l’esperienza è stata chiusa, determinando il licenziamento di decine di detenuti. “Speriamo ancora – prosegue Boscoletto – nella promessa del ministro Andrea Orlando, che la chiusura del progetto sia solo un fatto temporaneo e si trovi il modo idoneo e più esteso di ripartire”.
L’esempio di Palermo: i detenuti riaprono un sito archeologico – Al di là dei diversi ostacoli da superare, il terzo settore vanta un universo variegato di realtà che si impegnano per il reinserimento sociale dei detenuti. Nel campo strettamente lavorativo e in quello del volontariato, fuori e dentro il carcere. Solo per citare alcuni esempi, a Milano c’è il laboratorio di moda della cooperativa Alice, in Puglia ci sono le borse confezionate da Made in carcere, nelle carceri di Padova, Busto Arsizio e Torino i detenuti producono dolci. E infine c’è la cooperativa Padre Nostro di Palermo. Qui il lavoro di quattro detenuti-volontari ha permesso alla cittadinanza di riscoprire un sito archeologico prima inaccessibile. Si tratta di un’area di otto chilometri quadrati, che contiene testimonianze della dominazione araba di Palermo. Negli anni Ottanta c’erano stati scavi, ma poi il sito era stato abbandonato all’incuria, diventando in parte un parcheggio abusivo. I detenuti del carcere Pagliarelli hanno restituito questo spazio alla città e ai turisti, con le bonifiche terminate nel maggio 2014, dopo un anno di lavoro. La comunità Padre Nostro, inoltre, coinvolge circa altri trenta carcerati in lavori di pubblica utilità, come accoglienza di minori in comunità, doposcuola, trasporto disabili, assistenza di anziani. “Abbiamo anticipato tutto di tasca nostra – spiega Maurizio Artale, presidente della cooperativa – La Regione Sicilia ci deve 1,5 milioni di euro circa per le attività degli anni 2013 e 2014. Se non arriveranno questi soldi, ci affosseranno definitivamente”.
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(Adnkronos) - Serie di attacchi aerei di Israele nella Striscia di Gaza, ripresi nella notte su ordine di Benjamin Netanyahu, che ha ordinato "la ripresa della guerra" contro Hamas, dopo che gli sforzi per estendere il cessate il fuoco sono falliti. Il bilancio delle vittime continua a salire. Secondo il direttore del ministero della Sanità della Striscia, Mohammed Zaqout, i morti sono saliti "ad almeno 330, per la maggior parte donne e bambini palestinesi, mentre i feriti sono centinaia"
Secondo quanto appreso dall'Afp da due fonti del movimento di resistenza islamico, tra le vittime c'è anche il generale di divisione Mahmoud Abu Watfa, che era a capo del ministero dell'Interno del governo di Hamas.
L'ufficio del primo ministro Netanyahu ha dichiarato che lui e il ministro della Difesa Israel Katz hanno dato istruzioni alle Forze di Difesa Israeliane (Idf) di intraprendere “un'azione forte contro l'organizzazione terroristica di Hamas” nella Striscia di Gaza. “Questo fa seguito al ripetuto rifiuto di Hamas di rilasciare i nostri ostaggi, così come al suo rifiuto di tutte le proposte ricevute dall'inviato presidenziale statunitense Steve Witkoff e dai mediatori”, ha dichiarato l'ufficio di Netanyahu in un post su X. “Israele, d'ora in poi, agirà contro Hamas con una forza militare crescente”, ha dichiarato l'ufficio di Netanyahu in una dichiarazione riportata dal Times of Israel, aggiungendo che i piani per la ripresa delle operazioni militari sono stati approvati la scorsa settimana dalla leadership politica.
Israele continuerà a combattere a Gaza "fino a quando gli ostaggi non saranno tornati a casa e non saranno stati raggiunti tutti gli obiettivi", ha affermato Katz.
La Casa Bianca dal canto suo ha confermato che Israele ha consultato l'amministrazione americana prima di lanciare la nuova ondata di raid. "Hamas avrebbe potuto rilasciare gli ostaggi per estendere il cessate il fuoco, invece ha scelto il rifiuto e la guerra", ha detto il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, Brian Hughes, al Times of Israel, dopo la ripresa dei raid israeliani contro la Striscia di Gaza.
Dal canto suo Hamas ha dichiarato che Netanyahu, con la sua decisione di "riprendere la guerra", "ha condannato a morte gli ostaggi" che si trovano ancora a Gaza. "Netanyahu e il suo governo estremista hanno deciso di sabotare l'accordo di cessate il fuoco - accusa il movimento in una nota - La decisione di Netanyahu di riprendere la guerra è la decisione di sacrificare i prigionieri dell'occupazione e di imporre loro la condanna a morte”. Hamas denuncia poi che il premier israeliano continua a usare la guerra a Gaza come "una scialuppa di salvataggio" per distrarre dalla crisi politica interna.
Hamas ha quindi esortato i mediatori internazionali a “ritenere l'occupazione israeliana pienamente responsabile della violazione dell'accordo” e ha sottolineato la necessità di “fermare immediatamente l'aggressione”.
Il cessate il fuoco era rimasto in vigore per circa due settimane e mezzo dopo la conclusione della prima fase, mentre i mediatori lavoravano per mediare nuovi termini per l'estensione della tregua. Hamas ha insistito per attenersi ai termini originali dell'accordo, che sarebbe dovuto entrare in vigore nella sua seconda fase all'inizio del mese. Questa fase prevedeva che Israele si ritirasse completamente da Gaza e accettasse di porre fine definitivamente alla guerra in cambio del rilascio degli ostaggi ancora in vita. Sebbene Israele abbia firmato l'accordo, Netanyahu ha insistito a lungo sul fatto che Israele non porrà fine alla guerra fino a quando le capacità militari e di governo di Hamas non saranno state distrutte. Di conseguenza, Israele ha rifiutato anche solo di tenere colloqui sui termini della fase due, che avrebbe dovuto iniziare il 3 febbraio.
Gli Houthi dello Yemen "condannano la ripresa dell'aggressione del nemico sionista contro la Striscia di Gaza". "I palestinesi non verranno lasciati soli in questa battaglia e lo Yemen continuerà con il suo sostegno e la sua assistenza e intensificherà il confronto", minaccia il Consiglio politico supremo degli Houthi, che da anni l'Iran è accusato di sostenere, come riportano le tv satellitari arabe.
Genova, 18 mar. (Adnkronos) - Tragedia nella notte a Genova in via Galliano, nel quartiere di Sestri Ponente, dove un ragazzo di 29 anni è morto in un incendio nell'appartamento in cui abitava. L'incendio ha coinvolto 15 persone di cui quattro rimaste ferite, la più grave la madre del 29enne, ricoverata in codice rosso al San Martino. Altre tre persone sono state ricoverate in codice giallo all'ospedale di Villa Scassi. Sul posto la polizia che indaga sulla dinamica.
Dalle prime informazioni si sarebbe trattato di un gesto volontario del giovane che si sarebbe dato fuoco.
Milano, 17 mar. (Adnkronos Salute) - Bergamo, 18 marzo 2020: una lunga colonna di camion militari sfila nella notte. Sono una decina in una città spettrale, le strade svuotate dal lockdown decretato ormai in tutta Italia per provare ad arginare i contagi. A bordo di ciascun veicolo ci sono le bare delle vittime di un virus prima di allora sconosciuto, Sars-CoV-2, in uscita dal Cimitero monumentale.
Quell'immagine - dalla città divenuta uno degli epicentri della prima, tragica ondata di Covid - farà il giro del mondo diventando uno dei simboli iconici della pandemia. Il convoglio imboccava la circonvallazione direzione autostrada, per raggiungere le città italiane che in quei giorni drammatici accettarono di accogliere i defunti destinati alla cremazione. Gli impianti orobici non bastavano più, i morti erano troppi. Sono passati 5 anni da quegli scatti che hanno sconvolto l'Italia, un anniversario tondo che si celebrerà domani. Perché il 18 marzo, il giorno delle bare di Bergamo, è diventato la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus.
La ricorrenza, istituita il 17 marzo 2021, verrà onorata anche quest'anno. I vescovi della regione hanno annunciato che "le campane di tutti i campanili della Lombardia" suoneranno "a lutto alle 12 di martedì 18 marzo" per "invitare al ricordo, alla preghiera e alla speranza". "A 5 anni dalla fase più acuta della pandemia continuiamo a pregare e a invitare a pregare per i morti e per le famiglie", e "perché tutti possiamo trovare buone ragioni per superare la sofferenza senza dimenticare la lezione di quella tragedia". A Bergamo il punto di partenza delle celebrazioni previste per domani sarà sempre lo stesso: il Cimitero Monumentale, la chiesa di Ognissanti. Si torna dove partirono i camion, per non dimenticare. Esattamente 2 mesi fa, il Comune si era ritrovato a dover precisare numeri e destinazioni di quei veicoli militari con il loro triste carico, ferita mai chiusa, per sgombrare il campo da qualunque eventuale revisione storica. I camion che quel 18 marzo 2020 partirono dal cimitero di Bergamo furono 8 "con 73 persone, divisi in tre carovane: una verso Bologna con 34 defunti, una verso Modena con 31 defunti e una a Varese con 8 defunti".
E la cerimonia dei 5 anni, alla quale sarà presente il ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli, sarà ispirata proprio al tema della memoria e a quello della 'scoperta'. La memoria, ha spiegato nei giorni scorsi l'amministrazione comunale di Bergamo, "come atto necessario per onorare e rispettare chi non c'è più e quanto vissuto". La scoperta "come necessità di rielaborare, in una dimensione di comunità la più ampia possibile, l'esperienza collettiva e individuale che il Covid ha rappresentato".
Quest'anno è stato progettato un percorso che attraversa "tre luoghi particolarmente significativi per la città": oltre al Cimitero monumentale, Palazzo Frizzoni che ospiterà il racconto dei cittadini con le testimonianze raccolte in un podcast e il Bosco della Memoria (Parco della Trucca) che esalterà "le parole delle giovani generazioni attraverso un'azione di memoria". La Chiesa di Ognissanti sarà svuotata dai banchi "per rievocare la stessa situazione che nel 2020 la vide trasformata in una camera mortuaria". Installazioni, mostre fotografiche, momenti di ascolto e partecipazione attiva, sono le iniziative scelte per ricordare. Perché la memoria, come evidenziato nella presentazione della Giornata, "è la base per ricostruire".
Kiev, 17 mar. (Adnkronos) - Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato su X di aver parlato con il presidente francese Emmanuel Macron: "Come sempre scrive - è stata una conversazione molto costruttiva. Abbiamo discusso i risultati dell'incontro online dei leader svoltosi sabato. La coalizione di paesi disposti a collaborare con noi per realizzare una pace giusta e duratura sta crescendo. Questo è molto importante".
"L'Ucraina è pronta per un cessate il fuoco incondizionato di 30 giorni - ha ribadito Zelensky - Tuttavia, per la sua attuazione, la Russia deve smettere di porre condizioni. Ne abbiamo parlato anche con il Presidente Macron. Inoltre, abbiamo parlato del lavoro dei nostri team nel formulare chiare garanzie di sicurezza. La posizione della Francia su questa questione è molto specifica e la sosteniamo pienamente. Continuiamo a lavorare e a coordinare i prossimi passi e contatti con i nostri partner. Grazie per tutti gli sforzi fatti per raggiungere la pace il prima possibile".
Washington, 17 mar. (Adnkronos) - il presidente americano Donald Trump ha dichiarato ai giornalisti che il leader cinese Xi Jinping visiterà presto Washington, a causa delle crescenti tensioni commerciali tra le due maggiori economie mondiali. Lo riporta Newsweek. "Xi e i suoi alti funzionari" arriveranno in un "futuro non troppo lontano", ha affermato Trump.
Washington, 17 mar. (Adnkronos) - Secondo quanto riferito su X dal giornalista del The Economist, Shashank Joshi, l'amministrazione Trump starebbe valutando la possibilità di riconoscere la Crimea ucraina come parte del territorio russo, nell'ambito di un possibile accordo per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina.
"Secondo due persone a conoscenza della questione, l'amministrazione Trump sta valutando di riconoscere la regione ucraina della Crimea come territorio russo come parte di un eventuale accordo futuro per porre fine alla guerra di Mosca contro Kiev", si legge nel post del giornalista.
Tel Aviv, 17 mar. (Adnkronos) - Secondo un sondaggio della televisione israeliana Channel 12, il 46% degli israeliani non è favorevole al licenziamento del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu, rispetto al 31% che sostiene la sua rimozione. Il risultato contrasta con il 64% che, in un sondaggio di due settimane fa, sosteneva che Bar avrebbe dovuto dimettersi, e con il 18% che sosteneva il contrario.