Un’ora dopo il verdetto delle urne si erano già dimessi in tre. Appena reso noto il risultato delle elezioni nel Regno Unito i leader del partito Laburista, Ed Miliband, dei Liberaldemocratici, Nick Clegg, e della Destra nazionalista, Nigel Farage, hanno fatto fagotto e lasciato i rispettivi incarichi. Questione di stile, rigorosamente british, ma soprattutto di lealtà verso gli elettori. Non come in Italia, dove, a differenza del Regno Unito, quello delle dimissioni dopo le sconfitte elettorali resta un istituto quasi del tutto sconosciuto.
ETERNA POLTRONA Per Mario Segni, che ha fatto della battaglia referendaria per l’introduzione del sistema elettorale maggioritario il suo manifesto politico, il perché è presto detto. «Ciò che abbiamo visto succedere in Gran Bretagna nei giorni scorsi, rientra nella normalità del sistema e della cultura politica incentrati sul principio di responsabilità: chi vince è premiato e chi perde va a casa – sottolinea – Ed è il frutto naturale e logico di due elementi: la legge elettorale e il costume politico». Principio, ricorda Segni, ancora sconosciuto in Italia. «Noi abbiamo combattuto contro la regola che ha sempre dettato il principio opposto: quello del consociativismo – spiega l’ex democristiano che ha chiuso con la politica da oltre un decennio pur continuando l’impegno referendario – Per cui nessuno comanda, nessuno decide, nessuno perde, nessuno paga e, quindi, nessuno si dimette». Risultato: «Oggi siamo ancora molto indietro: è stato l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, del resto, ad ammettere che il Mattarellum era meglio dell’Italicum. Per anni abbiamo assistito a battaglie elettorali in cui vincevano tutti o, al massimo, qualcuno perdeva solo per un quarto o al massimo a metà». Favorendo il proliferare di un grande partito bipartisan. Quello degli incollati alla poltrona nonostante le debacle elettorali. Che annovera tra i suoi iscritti nomi di primo piano e di quasi tutti i principali movimenti politici, senza distinzione di collocazione e colore. Nella lista tanto per dire ci sono Pier Luigi Bersani, Silvio Berlusconi, ma anche Angelino Alfano, Pier Ferdinando Casini, Francesco Rutelli e Nichi Vendola. Pur di conservare un ruolo politico di primo piano, ci si inventa di tutto. C’è chi cambia nome al partito e chi ne fonda uno ex novo. Non manca neppure chi di ammettere la sconfitta proprio non vuol sentirne parlare. Senza contare chi, in passato, è arrivato a gridare perfino ai brogli.
PAREGGI E BROGLI Uno dei casi più noti è quello di Pier Luigi Bersani che, dopo le politiche del febbraio 2013, ha trasformato la sconfitta in una “non vittoria”. L’allora segretario del Pd, alla guida di una coalizione di centrosinistra, non aveva la maggioranza sicura in Parlamento. Ma questo non è servito a fargli fare un passo indietro: ha tentato di formare un governo cercando il sostegno degli altri partiti in Parlamento. Senza successo: si è dimesso il 19 aprile, solo dopo il fallimento dell’elezione di Romano Prodi al Quirinale. Non va meglio sull’altra riva politica. Dove Silvio Berlusconi non conosce la parola dimissioni dalla leadership del centrodestra. E, anzi, quando ha perso nel 2006 non ha nemmeno riconosciuto la vittoria degli avversari. «Il risultato deve cambiare, perché ci sono brogli a non finire in diversi posti», denunciò. Ora, non contento dei fallimentari sondaggi, dopo aver archiviato e resuscitato Forza Italia con la parentesi del predellino e del Popolo della libertà, sta pensando di fondare un nuovo soggetto politico: il “Partito repubblicano”. Come dire, cambiare nome o partito ma con gli stessi uomini al comando. Del resto neppure Beppe Grillo, alfiere del cambiamento, ha saputo accettare la sconfitta, facendo un passo indietro. Nel gennaio 2014 lanciò la sfida per le Europee: «Se gli italiani decidono che non ci vogliono, io prenderò una decisione diversa. Se ho sbagliato lascio». Ma dopo che il Movimento 5 Stelle è stato quasi doppiato dal Partito democratico (21,1% contro 40,8), gli è bastato prendere un Maalox (l’assunzione del farmaco è stata immortalata in un video) per guarire dal mal di stomaco causato dalla sconfitta e, soprattutto, per cambiare idea. Ancora oggi, del resto, Grillo è il capo dei 5 Stelle, anche se è stato costiuito un direttorio. «Quando a decidere chi vince e chi perde sono i capipartito, è inevitabile che a non perdere mai son solo loro», sottolinea Arturo Parisi, già ministro della Difesa del governo Prodi, che dalla politica si è ormai ritirato da un bel pezzo. «Nel Regno Unito a rottamare ci pensano invece gli elettori – prosegue –. Tornano a casa i capipartito che hanno portato i loro partiti alla sconfitta, restano a casa i politici bocciati dagli elettori del proprio collegio». Insomma, c’è un nesso evidente tra il sistema elettorale e la longevità della classe politica italiana. «Ecco perché – conclude Parisi – pur ritenendo l’Italicum migliore sia del Porcellum che del Consultellum resto ancora insoddisfatto, molto insoddisfatto, per il modo in cui l’Italicum seleziona i nostri parlamentari». Cioè, in gran parte nominandoli collocandoli come capilista.
OPERAZIONE MAQUILLAGE C’è anche un altro rimedio per aggirare un fallimento elettorale: l’operazione maquillage. Basta cambiare nome al partito o fondarne uno nuovo e il gioco è fatto. Ne sa qualcosa Pierferdinando Casini. La sua carriera politica – dopo il tramonto della Democrazia cristiana – riparte dal Ccd, che si unisce al Cdu e dà vita all’Udc. Nella marea di sigle, ha comunque sempre trovato il modo di evitare il naufragio: alle elezioni del 2013 si è presentato con Scelta Civica, successivamente rinnegata. Il motivo? Un risultato elettorale al di sotto delle aspettative. Ora ha avviato il progetto “Area popolare” in compagnia di Angelino Alfano, altro fuoriclasse nel campo del restyling. Appurata la bocciatura alla Europee del Nuovo centrodestra, per non scomparire ha cercato di allargare gli orizzonti del partito proprio con “Area popolare”. Ma a proposito di ex democristiani, non scherza nemmeno Rocco Buttiglione. Chiamato nel 1993 dal segretario della Dc, Mino Martinazzoli, a guidare una commissione che aveva il compito di tracciare le linee politico-morali dei cattolici, approda in Parlamento nel 1994 sotto le insegne del Partito popolare, di cui divenne segretario, prima di fondare il Cdu, transitare nell’Udr (con Francesco Cossiga e Clemente Mastella, ex Dc, poi Ccd, Cdr, Udr, Udeur e infine eurodeputato in quota Pdl) e approdare definitivamente nell’Udc. Saltando da un partito all’altro, a sopravvivere, politicamente parlando, fino alla scorsa legislatura è riuscito anche Pierluigi Castagnetti: dalla Dc al Ppi, di cui è stato anche segretario, dalla Margherita al Pd. Guardando a destra, invece, impossibile non citare Gianfranco Fini. L’ex delfino di Giorgio Almirante, che ha traghettato il Movimento sociale italiano in Alleanza nazionale con la svolta di Fiuggi, è uscito di scena dopo aver dissolto anche An nel Popolo della libertà prima del flop di Futuro e libertà. Ma sente già la nostalgia della politica. «Sono pronto a lavorare per una nuova destra anti-Le Pen e di governo», ha dichiarato presentando la nuova iniziativa politica ribattezzata Libera Destra. E, a proposito di destra, dalle ceneri del Movimento sociale prima e di Alleanza Nazionale poi, c’è chi ha preferito percorrere strade diverse. E mentre molti ex missini trovavano ospitalità tra le accoglienti braccia del berlusconismo (come Maurizio Gasparri e Gianni Alemanno), altri hanno preferito coltivarsi un proprio orticello. Da La Destra di Francesco Storace ai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, già ministro della Gioventù del governo Berlusconi, seguita dall’evergreen Ignazio La Russa.
POTERE IN 4 CANTONI Achille Occhetto, ex segretario del Pds, ha lasciato la politica dopo la vittoria del centrodestra alle politiche del 1994. «Ma non perché mi sentissi sconfitto – spiega – visto che in quell’occasione il mio partito guadagnò il 4%, percentuale che oggi molte forze politiche metterebbero la firma per avere. Lasciai in polemica con l’andazzo del partito che, invece di seguire la linea della ricostruzione da sinistra, si avviò verso una deriva moderata di cui vediamo oggi gli effetti finali con l’arrivo di Matteo Renzi». Ma il vero problema, secondo Occhetto, è la classe dirigente italiana che il reduce del Partito comunista fotografa così: «Un pacchetto di uomini che circolano in tutti gli incarichi: se non sei più segretario di partito sei presidente del Consiglio, se non sei premier sei papabile per il Quirinale. Siamo alla distribuzione dei quattro cantoni del potere». Esiste «un personale politico, dieci-venti persone in tutto, tra ex Dc, Pci e Psi», che agisce «nell’ombra ma è sempre in agguato». Un’élite che, secondo l’ex leader del Pds, «ostacola il ricambio generazionale». Una situazione che, in Gran Bretagna, non sarebbe neppure ipotizzabile. «Perché conclude Occhetto – le dimissioni fanno parte del Dna del sistema politico del Regno Unito».
PANE E CICORIA Il vecchio vezzo di smontare e rimontare i partiti per non scomparire non dispiace neanche alla sinistra. Nichi Vendola è infatti pronto a porre la parola fine all’esperienza di Sel per un nuovo contenitore politico. Alle elezioni del 2013 il risultato è stato molto negativo con poco più del 3%. Ma il presidente della Regione Puglia non ha lasciato l’incarico. Tutt’altro. I leader del passato non hanno fatto meglio. Francesco Rutelli infatti non è stato da meno. Nel 2001 il suo Ulivo perse le elezioni. L’ex sindaco di Roma non ha battuto ciglio e ha proseguito la carriera, sperando nella ricandidatura nel 2006. Tanto che nel 2005 ha proferito le celeberrime parole: «Ho mangiato pane e cicoria per costruire il centrosinistra e consegnarlo a Prodi», disse infastidito dal ritorno sulla scene del Professore. Il masticatore di cicoria è stato poi premiato nel 2008 con la nuova candidatura a sindaco di Roma. Quando, però, ha subito l’ennesima sconfitta che non la ha convinto a lasciare il proscenio politico. Così nel 2009 ha cercato di rilanciare, fondando l’Alleanza per l’Italia. Massimo D’Alema ha un percorso diverso: dopo la batosta alle Regionali del 2000 si è effettivamente dimesso da presidente del Consiglio «per un atto di sensibilità politica e non per dovere istituzionale», disse. Ma la storia racconta che la sua è stata un’uscita di scena solo momentanea: nel 2006 è tornato in sella diventando ministro degli Esteri del governo Prodi. Dal 2013 non siede più in Parlamento, e tra una bottiglia di vino e l’altra prodotta dall’azienda agricola di famiglia, è stato tra i papabili per la poltrona di ministro degli Esteri dell’Unione europea. Mai dire mai.
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