E’ italiano, pesa solo 45 chili e ha tre bracci d’acciaio Inox. Se potesse anche parlare potrebbe dire quello che gli altri non dicono: se l’esordio dell’Expo, enfatizzato da più parti, è un successo oppure no. Perché a 12 giorni dall’inaugurazione una risposta certa non c’è. Gli organizzatori dell’evento hanno adottato la politica di non comunicare il numero di ingressi effettivi ma limitarsi agli 11 milioni di biglietti venduti finora, un dato che in realtà dice poco sulla reale capacità d’attrazione della manifestazione, visto che 10 sono stati venduti in prevendita, a scatola chiusa e cantieri ancora aperti. Non è impuntatura. Gli italiani hanno contribuito in tasse all’avventura del 2015 per un importo analogo al costo del biglietto. Anche quelli che non ci andranno ne sono azionisti. E dunque, avrebbero motivo di sapere come va il loro piccolo “investimento”. E invece non lo possono sapere.

Silenzio, c’è Expo. Il gioco dei numeri che nessuno dice
Il commissario Giuseppe Sala spiega così il silenzio: “Non diamo numeri perché nelle manifestazioni di questo tipo ci sono molte variabili e poi si aprono polemiche sul nulla. Si correrebbe il rischio di esaltarsi o deprimersi mentre io voglio che il mio team rimanga concentrato sulle cose da fare”. Punto. La società annuncia che mercoledì 13 maggio farà un primo bilancio in una conferenza stampa e quella potrebbe essere l’occasione per fornire dati sulle effettive presenze. Tuttavia i numeri – ufficiosi – girano fin dal primo giorno. Le agenzie di stampa, facendo riferimento a non meglio precisate fonti Expo, annunciavano 200mila presenze all’inaugurazione del primo maggio, ma lo stesso Sala non ha confermato. Il secondo giorno è stata una nota del Comune di Milano a riferire di 220 mila ingressi, anche stavolta non confermati. Il bilancio “ufficioso” della prima settimana, secondo fonti vicine alla società, si chiuderebbe con circa 500mila presenze, non proprio confortanti rispetto alle attese, come rileva anche il Sole24Ore. Ma sempre di numeri  incerti si tratta.

Li contiamo tutti, ma facciamo finta di no
Il paradosso è che a contare i visitatori è lo stesso tornello che li fa entrare. E lo fa con grande perizia, in tempo reale e senza margini d’errore. Lo ha progettato ad hoc per Expo la trevigiana Came Group, azienda di Dosson leader nel settore delle automazioni che ha firmato, tra gli altri, i dissuasori del Pentagono a Washington. Come funziona? Ogni dispositivo può gestire fino a 25 ingressi al minuto e dislocati ai quattro cancelli di Expo ce ne sono 230. Ognuno è dotato di uno speciale lettore ottico che registra tutti i biglietti: cartaceo, Qr Code, Rfid o Nfc oltre a tablet, telefonino Telecom e carta di credito Banca Intesa. La connessione ethernet “nativa” trasmette immediatamente il dato (in entrata e in uscita) al “main operation center” della centrale operativa dislocata in via Drago che dista meno di un km da all’era Expo (foto). Il sistema è dunque congegnato proprio per monitorare e fornire le presenze in tempo reale, quelle che tutti chiedono di conoscere e nessuno rivela. Insomma quel dato, se mai ci fossero stati dubbi, c’è. Solo non viene diffuso.

Via Drago

Il messaggio universale: la trasparenza può aspettare
I motivi di tanta discrezione? Stanno tutti nel quadro economico. L’operazione Expo ha richiesto investimenti pubblici per 1,3 miliardi e dovrebbe generare ricadute economiche per cinque. La partita del pareggio e dei ritorni si gioca tutta sulle effettive presenze. Se mai ci fosse un bollettino giornaliero, e questo attestasse una visibile diminuzione degli ingressi, finirebbe per fare pubblicità negativa all’evento, rendendolo meno attrattivo. Il messaggio universale che arriva da Expo è che in Italia finisce sempre così: dal G8 alle grandi opere, quando ballano certe cifre la trasparenza e la cassa smettono presto di andar d’accordo.

Il principio del silenzio si è trasmesso lungo la filiera Expo da precise scelte di gestione. Su tutte, quella di sopperire ai mancati investimenti pubblici con il matrimonio d’interesse con i privati, ai quali viene offerta la possibilità di gestire in proprio (e senza gare) servizi strategici come la biglietteria e la gestione degli ingressi. Senza vincoli e contratti con la società Expo. E dunque obblighi di pubblicità e trasparenza verso terzi. Bussa pure, che non ti rispondono.

Ma andiamo con ordine, i conti. Lo Stato ha coperto il miliardo e 300 milioni per la realizzazione della “cittadella” ma non ha messo un euro per coprire i costi di gestione di questa gigantesca macchina che gira 24 ore su 24 e che alla fine dei sei mesi – tra personale, pulizie, ammortamenti e servizi – dovrebbe presentare un conto da 800 milioni. Dagli sponsor ne sono arrivati cash 370, meno della metà. Per coprire la differenza tocca assolutamente vendere 24 milioni di ingressi. È dunque, come detto, è sui ticket e sulla capacità di conquistare turisti che l’evento si giocherà più della metà dei ricavi operativi. Finora ne sono stati venduti 11 milioni, il 40% di quanto previsto per circa 200 milioni. Ma non tutti gli “assegni” vengono incassati subito e su quelli futuri non c’è certezza.

Interessi pubblici&affari privati. Il silenzio è d’oro
E’ chiaro che, se venissero a mancare, salterebbe tutto. E qui arriviamo dritti al secondo motivo del voto di silenzio. La ricca partita dei biglietti d’ingresso a Expo2015 è finita tutta nelle mani di privati. Dalla vendita all’incasso e fino alla “consumazione”. Una scelta che si impone nel 2012, quando la società di gestione di ritrova in grande in affanno. E’ partecipata dal governo al 40% ma scopre che non avrà soldi pubblici per quel miliardo e rotti che costa accendere le luci del grande Luna Park. Si rischia di non partire neppure. Expo Spa gioca allora l’unica carta possibile: quella dei partner privati cui chiede di partecipare attivamente all’evento investendo, in cambio di soldi ma anche di corrispettivi in servizi (remunerativi) e ritorni d’immagine. E le invita direttamente a rispondere a una “Request for proposal”. Gli esperti del settore le definiscono “gare atipiche”, soprattutto per l’alto valore economico dei servizi. Ma anche per l’attenuazione degli obblighi di pubblicità e trasparenza, già che il “fornitore” in realtà è un partner direttamente coinvolto. Il relativo contratto con Expo, per dire, sul sito ufficiale dell’evento non c’è. E il tentativo di ottenere informazioni va a vuoto: “chiamate Expo Spa”. Punto. E si torna da capo.

Siamo tutti azionisti. Paghiamo il biglietto (senza entrare)
La manifestazione è internazionale, gli investimenti sono in gran parte statali (1,3 miliardi). In ballo ci sono tante aspettative sull’indotto, l’occupazione e il Pil. A scendere c’è la stessa Expo Spa (e i soci pubblici), chiamati a chiudere i conti in equilibrio. Dietro, tutte le società private che hanno fatto investimenti diretti e si sono accollate rischi d’impresa. Insomma, gli interessi in gioco impongono qualcosa oltre la prudenza: il silenzio. Ecco perché si prende la temperatura a Expo e si lascia che solo una ristretta platea di soggetti possa a sapere davvero come sta. La controindicazione è che ad oggi non lo sanno gli italiani, anche se finora hanno pagato tutti il biglietto e senza neppure andarci. Facciamo due conti: lo Stato ci ha messo 1,3 miliardi, diviso per i 41,3 milioni di contribuenti attivi fa 31,4 euro a testa. Il biglietto d’ingresso a data fissa ne costa 34. E tuttavia il cittadino qualsiasi, il visitatore e il contribuente non può sapere come va l’involontario investimento in conto Expo. Si deve rassegnare. Il tornello hi-tech, purtroppo, ancora non parla.

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