“No non ero serena”. Gli occhi sono lucidi. “Non ero serena quando ho emesso la sentenza per la discarica di Bussi”. La signora si tortura le mani. “Capivo l’importanza di questa sentenza, sono stata sorteggiata, ho preso tutto molto seriamente, certo con i miei limiti, con le mie conoscenze giuridiche, ma io in questa sentenza, soprattutto nelle sue motivazioni, proprio non mi riconosco”. “Neanche io ero serena”, dice l’altra signora, “ma le dico di più: non abbiamo mai letto gli atti del processo”.
Quei 25 ettari inquinati dalla vecchia fabbrica
Sebbene il processo non riguardi imputazioni di omicidio – ed è bene sottolinearlo – è anche vero che molta gente continua a chiedersi se la morte dei propri cari abbia mai avuto un nesso con i 25 ettari inquinati dalla vecchia Montedison.
È il caso, per esempio, di Nadia Tronca che è rimasta vedova nel 2005, quando suo marito è morto per una nefropatia da piombo. La signora Tronca ha pubblicamente chiesto, con delle dichiarazioni al quotidiano abruzzese Il Centro, di capire se vi sia stato un nesso tra la morte del marito, che per 18 anni ha lavorato alla Siac, nello stabilimento di Bussi, e l’inquinamento delle falde acquifere. “Il posto di lavoro non era buono: questo mi diceva mio marito. E l’inquinamento in questa zona non è una scoperta e sì, la gente ha paura, perché non sa che cos’è accaduto con certezza, non sa perché alcune persone sono morte giovani”.
Anche per questo, rispetto all’immaginario che ruota intorno a un processo e a una sentenza, sebbene non vi fossero imputazioni per omicidio, l’idea che i giudici popolari non abbiano letto neanche gli atti, stride davvero parecchio.
“Sembrava potessimo vedere le carte ma poi non se n’è fatto più niente”
“Mai letti”, ribadisce la prima, “ci abbiamo provato, li abbiamo chiesti, in un’occasione sembrava potessimo vederli, ma poi non se n’è fatto più niente… Nessuno ce l’ha negato, ma alla fine, questi atti, non li abbiamo mai letti”. Le due signore – che chiedono di mantenere l’anonimato – sono tra le sei giudici della corte d’Assise che, il 19 dicembre scorso, hanno emesso la sentenza sulla mega-discarica di Bussi e i veleni della Montedison. Quel pomeriggio di dicembre, i 19 imputati furono assolti dal reato di avvelenamento delle acque mentre, per il disastro ambientale, la Corte derubricò il capo d’imputazione in disastro colposo. Nessuna pena anche in questo caso: era sopraggiunta la prescrizione. Dopo cinque ore di camera di consiglio, il presidente della corte d’Assise, Camillo Romandini, legge un dispositivo di sei righe. I pm – Belleli e Mantini – avevano chiesto condanne, per gli ex dirigenti e tecnici di Montedison, che andavano dai 12 ai 4 anni. Il Fatto Quotidiano è riuscito a ricostruire, parlando con i giudici popolari, quel che accadde il 19 dicembre e nei giorni precedenti. “Siamo disposte a confermare tutto dinanzi ai giudici – rivelano le donne – se un magistrato ci chiama racconteremo la nostra verità”. Secondo la loro versione, innanzitutto, i giudici popolari non hanno letto un solo atto del processo. “Ci siamo rifatte alle slide viste in udienza e alle parole sentite in aula”. Ma c’è di più.
La discussione tra vacanze e viaggi
La sentenza fu emessa alle 17 e le cronache raccontano di una seduta durata circa cinque ore. “In realtà – ci spiegano – appena ci siamo riuniti abbiamo ordinato il pranzo. Dopo aver pranzato abbiamo iniziato a discutere del più e del meno, di vacanze e viaggi, finché, dopo un bel po’ di tempo, abbiamo iniziato ad affrontare la decisione”. “Abbiamo aspettato che arrivassero le cinque, ma della sentenza non abbiamo discusso tutto il tempo”, conferma un’altra giudice. Le cronache raccontano anche che la decisione è stata presa all’unanimità. “Nella sostanza è andata così – dicono entrambe – ma in realtà noi eravamo su un’altra posizione. Non avremmo voluto derubricare il dolo in colpa. Eravamo in linea con la posizione dell’avvocatura dello Stato: eravamo in quattro giudici popolari su quella posizione. E io sono tuttora convinta che vi sia stata la consapevolezza di inquinare”. Avete votato contro? “No – ci rispondono – perché non v’è stato alcun voto. Nessuno ci ha chiesto di votare individualmente. La seduta s’è conclusa con la domanda: ‘Siamo tutti d’accordo?’. Nessuna di noi ha più obiettato. Avevamo capito che la prescrizione sarebbe intervenuta. Ma non abbiamo più replicato. Ed è finita così”. Il punto, però, è che le giudici sostengono di non essere state serene nel loro giudizio. E che proprio quest’assenza di serenità è il motivo che le ha spinte a non opporsi più di tanto alla derubricazione da dolo in colpa. Per capirlo – stando sempre alla loro versione – bisogna fare un salto indietro di tre giorni.
A tavola l’avvertimento del rischio grosso
Il 16 dicembre, alcune delle sei giudici popolari, cenano insieme con il presidente della Corte d’Assise, Camillo Romandini, e il giudice a latere, Paolo di Geronimo, in un locale pubblico di Pescara. È un incontro conviviale, a poche ore dalla sentenza e, nell’occasione, tra una portata e l’altra, si discute del processo. “Durante la cena dico: per me il dolo c’è – racconta una delle giudici – e non ero l’unica”. “A quella cena c’ero anche io – conferma un’altra giudice – e anche io sostenevo che, per me, il dolo c’era”. “Noi la cena l’abbiamo organizzata proprio perché volevamo discutere del dolo – aggiunge l’altra – anche perché non eravamo riusciti a leggere nessun atto…”. “In realtà ci era stato già spiegato che non potevamo condannare per dolo… – continua l’altra – volevamo però capire perché il dolo non c’era…”. E qui arriva il punto più controverso della ricostruzione. “Il giudice Romandini ci ha spiegato che, se avessimo condannato per dolo, se poi si fossero appellati e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente, chiedendoci i danni, e avremmo rischiato di perdere tutto quello che abbiamo…”. La norma sulla “rivalsa” per i giudici popolari, in realtà, prevede una fattispecie ben precisa: “Rispondono soltanto in caso di dolo” oppure di “negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove”. E sia l’accusa, sia l’avvocatura dello Stato, contemplavano il dolo di alcuni imputati nel processo. Abbastanza difficile, insomma, che la resposnabilità ricadesse sui giudici popolari. Eppure così è andato – in base alle ricostruzioni raccolte da Il Fatto Quotidiano – il processo alla mega discarica di Bussi.
Il risultato è noto. In base alla sentenza, gli assolti, il disastro ambientale l’hanno causato, sì, ma senza averne intenzione. E nel frattempo è arrivata la prescrizione. L’acqua sarà pure stata contaminata, come dimostrano le analisi dell’istituto superiore della Sanità, ma loro non l’hanno mai avvelenata. L’accusa, sostenuta dai pm Annarita Mantini e Giuseppe Bellelli, viene sconfitta. Idem l’avvocatura dello Stato, rappresentato da Cristina Gerardis, che in aula, durante il processo, aveva pronunciato parole durissime. I pm sostengono che alcuni imputati sapevano che l’acquedotto Giardino, a partire dal 1992, fosse stato inquinato. E l’acquedotto riforniva acqua a un bacino di 700mila persone in tutta la Val Pescara. E ancora: nel processo vengono depositati documenti sul mercurio ritrovato nel 1972 nei pesci e nei capelli dei pescatori del porto di Pescara. E le dichiarazioni di una dirigente dell’Arpa, messe a verbale dal comandante della Guardia forestale, Guido Conti: “… è stata accertata la presenza di sostanze potenzialmente a rischio per la salute umana… Sarebbe stato necessario vietare l’erogazione e la distribuzione delle stesse acque…”. Il processo si chiude con l’assoluzione e la prescrizione. La difesa può esultare. Inclusa Paola Severino, che difende Mauro Molinari, geologo e consulente della Montedison. “Non è con i processi penali che si ottengono i risultati in tema di ambiente, non basta trovare il capro espiatorio”, aveva dichiarato Severino davanti ai giornalisti, aggiungendo che la responsabilità delle bonifiche deve essere estesa allo Stato. Poche ore dopo, la linea Severino – e degli altri difensori – ha convinto la corte d’Assise presieduta dal giudice Camillo Romandini. Giudice subentrato a Geremia Spiniello, che fino a pochi mesi prima ha presieduto la corte, salvo essere ricusato. Il motivo: aveva osato dichiarare, in un’intervista, che la Corte avrebbe “reso giustizia al territorio”. Un’affermazione che, secondo i difensori, preordinava un giudizio di colpevolezza. Dopo questa dichiarazione – “renderemo giustizia al territorio” – Spiniello è costretto ad abbandonare il processo e a lasciare il suo posto a Romandini.
“Si assumano le responsabilità di ciò che affermano”
“Non posso commentare le dichiarazioni dei giudici popolari – commenta Romandini al Fatto – che si assumono la responsabilità di ciò che dicono. Non posso commentare perché sono tenuto alla segretezza di quanto accaduto in camera di consiglio”. I giudici hanno potuto leggere gli atti? “Sono stati messi nelle condizioni di poter decidere. E nella massima correttezza e trasparenza”. E sulla cena, sulla possibilità che dovessero risarcire i danni, per una eventuale condanna con dolo ribaltata in appello? “Non posso riferire nulla che riguardi le nostre discussioni in camera di consiglio”.
da il Fatto Quotidiano di mercoledì 13 maggio 2015