Lo scorso settembre Barack Obama annunciò la creazione di una coalizione internazionale per “indebolire e infine distruggere l’ISIS”. Sette mesi più tardi, lo Stato Islamico è più forte che mai. In Siria si è annesso la provincia di Deir al-Zour e la città di Palmira. In Iraq, i militanti hanno conquistato Ramadi, Haditha, Anah, Tarbil, Al-Qaim, rafforzando la presa sui pozzi petroliferi di Baiji. Rispetto allo scorso settembre, spiega una fonte del governo di Bagdad, l’ISIS oggi si allarga su un 25-30% in più di territorio iracheno. Obama può dire, come ha fatto in un’intervista a The Atlantic, che “gli Stati Uniti non stanno perdendo la guerra contro l’ISIS”. La realtà è l’esatto contrario. Gli Stati Uniti stanno perdendo, per alcuni hanno già perso, la guerra.
Nelle ultime settimane, l’amministrazione ha più volte sbandierato successi che non esistono; o attenuato sconfitte che invece sono davanti agli occhi di tutti. L’assassinio di Abu Sayyaf, il 16 maggio, è stato salutato dal segretario alla difesa Ashton Carter come “un colpo significativo all’ISIS”. In realtà, l’ISIS può continuare e continuerà tranquillamente nella sua strategia anche senza Sayaff, descritto dal New York Times, di solito molto benigno con questa amministrazione, come “un leader di medio livello, paragonabile a un cassiere di Al Capone, dunque facilmente rimpiazzabile”. Di contro, la caduta di Ramadi, a lungo non confermata dal Pentagono, è stata alla fine definita un “intoppo tattico” da Obama. Peccato che lo scorso novembre il governatore della provincia di Anbar, di cui Ramadi è capitale, aveva detto: “Se perdiamo Anbar, perdiamo l’Iraq”.
Nell’intervista a The Atlantic, Obama cerca disperatamente di addossare la responsabilità dei recenti “intoppi” agli iracheni. “L’addestramento delle forze di sicurezza irachene, le fortificazioni, il sistema di controllo e quello di comando non si sviluppano alla necessaria velocità”, spiega Obama. Il presidente però non spiega perché l’appello del primo ministro iracheno Haider al-Abadi, dopo la caduta di Ramadi, non è stato raccolto. Aveva chiesto di incontrare i vertici americani, si è dovuto accontentare di vedere l’ambasciatore USA a Bagdad, Stuart E. Jones (mentre invece il ministro della difesa iraniano, Hussein Dehgan, era questa settimana a Bagdad, per coordinarsi con la sua controparte irachena). Né Obama spiega come mai gli unici veri successi contro l’ISIS non siano stati messi a segno dalle truppe americane. La ripresa di Kobane è merito dei guerriglieri curdi, quella di Tikrit delle milizie sciite hashad al-Shaabai.
E’ del resto la strategia militare americana a fare acqua da tutte le parti. La responsabilità è anche delle truppe irachene, ha spiegato un generale USA in pensione, Peter Mansoor, “ma sono soprattutto i nostri errori a pesare”. Sotto accusa è anzitutto la strategia dei raid aerei. “Funzionano soltanto quando i nemici si ammassano in larghi gruppi in un luogo ben preciso”, racconta Seth Jones della Rand Corporation di Washington. I militanti dell’ISIS viaggiano invece in piccoli gruppi. La loro è una guerriglia veloce, duttile, che si adatta a situazioni e luoghi. La disponibilità dello Stato Islamico a sacrificare molti dei suoi uomini, in azioni disperate o attacchi suicidi, rende ancora meno efficaci i bombardamenti dall’alto. “Quella dell’ISIS è una tattica stile colpisci-e-scappa”, spiega Jones. A questo va aggiunto che gli americani non hanno saputo gestire al meglio i conflitti etnici iracheni. Le tribù sunnite hanno vissuto con fastidio il ruolo sempre più importante svolto dalle milizie sciite nella guerra contro l’ISIS. Quando,lo scorso marzo, gli sciiti hanno ripreso Tikrit, tante sono state le denunce di violenze, abusi, saccheggi, omicidi che sarebbero stati compiuti dalle stesse milizie ai danni dei sunniti.
A questo punto non sono molte le opzioni che restano all’amministrazione USA nella guerra all’ISIS. Sono, ha spiegato il Wall Street Journal in un articolo del 20 maggio, sostanzialmente tre: continuare a fare quello che sta facendo (cosa che, si è visto, non funziona); andare a un’escalation nei combattimenti (ma è rischioso e dagli esiti imprevedibili); ritirarsi, rinunciare a debellare l’ISIS, con le sicure conseguenze in termini di credibilità internazionale degli USA e di equilibri politici e militari nell’area. C’è, in tutto questo, un altro paradosso. Se le truppe americane intensificano la loro azione contro i militanti islamici, in Siria e in Iraq, rischiano di favorire il gioco dei “nemici” nell’area. In Siria cominciare a bombardare pesantemente le postazioni degli islamici può portare a un rafforzamento del presidente Bashar al Assad. In Iraq l’influenza militare e diplomatica dell’Iran è ormai un dato di fatto, e indebolire l’ISIS significa rafforzare ancora di più Teheran.
Sullo sfondo resta, ovviamente, una questione ancora più dirompente, rischiosa, incerta: la sorte di Assad. La Siria sarebbe, spiegano diversi testimoni in queste ore, almeno per metà nelle mani dell’ISIS. Ma il presidente siriano è messo alle strette anche dall’opposizione, dai vari gruppi di ribelli che ormai circondano Damasco, controllano il corridoio strategico con il Libano, sulle montagne Qalamoun, avanzano nell’enclave alawita nel nord-est. I servizi di intelligence israeliana, di solito molto bene informati, hanno già lanciato l’allarme. Assad potrebbe molto presto essere costretto a lasciare Damasco. Cosa farà, a questo punto, l’amministrazione Obama, con la Siria ormai esplosa, deflagrata tra le opposte fazioni, pronta a esportare il virus della sua anarchia in tutta la regione?