Altro che accelerare sulla bad bank, la società a partecipazione pubblica che ministero dell’Economia e Banca d’Italia puntano a mettere in campo per aiutare le banche a liberarsi di una parte dei crediti difficili o impossibili da riscuotere. Roma non solo non riesce a ottenere il via libera della Commissione europea, perché l’operazione potrebbe veicolare degli aiuti di Stato irregolari, ma rischia pure seriamente una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles che ha appena avviato la seconda fase dell’apertura della procedura sanzionatoria.
L‘oggetto della censura riguarda proprio la normativa sulle banche: l’Italia ha accumulato troppo ritardo rispetto ai termini previsti per il recepimento della direttiva sul nuovo meccanismo di salvataggio e risoluzione degli istituti di credito. La Bank recovery and resolution directive (Brrd) avrebbe dovuto essere recepita nella legislazione nazionale entro il 31 dicembre 2014. Invece, dopo essere stata presentata il 5 febbraio 2015, ha superato il vaglio del Senato soltanto il 15 maggio scorso, è ancora ferma alla Camera. Se la Penisola non la recepirà entro due mesi, potrà essere deferita alla Corte di Giustizia della Ue.
L’atto su cui l’esecutivo di Bruxelles ha inviato a Roma un “parere motivato” è quello che fissa le regole del cosiddetto ‘bail in‘, cioè la partecipazione dei privati al salvataggio delle banche. Una novità decisa nel 2014 alla luce del fatto che, negli anni della crisi, i Paesi europei sono intervenuti in soccorso degli istituti in crisi mettendo a disposizione nel complesso oltre 680 miliardi di euro, di cui 250 nella sola Germania e 4 in Italia, secondo i dati Eurostat. Stando alle nuove regole, dal gennaio 2016 in caso di crisi i costi del salvataggio ricadranno sugli azionisti, gli obbligazionisti e, a scalare, sulle altre categorie di creditori sulla falsarighe di quanto previsto in Italia dal diritto fallimentare. Compresi, quindi, i correntisti, per la parte di depositi che eccede i 100mila euro visto che sotto quella soglia i risparmi sono garantiti da un Fondo interbancario ad hoc.
Il direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, aveva lanciato l’allarme già due mesi fa, evidenziando il “ritardo preoccupante” del Parlamento italiano nel recepimento della direttiva e sottolineando che invece “molti Paesi l’hanno già recepita”. Appello rilanciato martedì dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, secondo il quale la norma è solo apparentemente tecnica e senza di essa affrontare “le crisi bancarie dovute alla recessione o alla mala gestio è più difficile”. Per la Banca d’Italia occorre evitare di essere messi in mora dalle istituzioni europee ma sopratutto il recepimento serve a garantire la certezza del diritto e consentire alle autorità di esercitare i nuovi compiti con gli strumenti che il legislatore europeo ha loro attribuito. Le norme europee infatti, in questa fase di transizione, frenano e rendono indisponibili i meccanismi di intervento tradizionali mentre i nuovi strumenti non sono appunto ancora utilizzabili. Una circostanza da evitare in un momento in cui il settore bancario italiano, seppure in miglioramento, sconta ancora l’eredità della recessione.
Oltre al rischio di non avere a disposizione i nuovi strumenti di risoluzione c’è anche un problema per i bilanci degli istituti di credito che non sanno quanto dover accantonare. Il contributo che il comparto bancario deve versare in maniera annuale al fondo di risoluzione infatti (all’inizio nazionale e poi gradualmente comunitario) deve fondarsi sulla normativa italiana che però appunto al momento manca.