Anton Checov, parlando del reportage giornalistico, scrisse che il vero reporter non è colui che informa e si informa attraverso un’intervista, ma colui che parla con chi incontra lungo la strada, colui che si inserisce all’interno dell’ambiente che intende raccontare. In questo senso, ogni buon reportage giornalistico è una doppia forma di viaggio: quello geografico, o esterno, nei luoghi che il reporter vuole investigare e narrare a vantaggio del suo lettore, e quello personale, o interiore, che è il risultato di ciò che il giornalista diventa dopo aver incontrato le persone e i luoghi che ha conosciuto.
Leggendo i reportage del collega Stefano Liberti la sensazione di questo doppio viaggio ti prende a schiaffi e ti accarezza pagina dopo pagina. Classe 1974, figlio di una borghesia romana anticlericale e illuminata, Liberti si è ben presto imposto in un panorama giornalistico italiano nepotistico, asfittico e ombelicale, nella convinzione che quanto accade nella piccola penisola a forma di Stivale sia automaticamente di importanza mondiale. Eppure, in chiave quasi derridiana, è semmai quel che accade intorno allo Stivale a essere assurto negli ultimi vent’anni a rilievo internazionale, al punto che al giorno d’oggi sulla bocca di giornalisti, analisti, politici e personale delle Nazioni Unite capita più spesso il nome dell’isola di Lampedusa che non quello della Sardegna o della Sicilia.
Liberti si è reso conto di questo mero fatto diversi anni or sono. Già a partire dall’inizio del 2003, quando l’Occidente era nel pieno del suo nuovo maccartismo islamofobo in seguito alla tragedia dell’11 settembre, Liberti ha coltivato dentro di sé la curiosità e il gusto della conoscenza. La conoscenza per capire l’altro, non già la mera informazione, come mi raccomandava pochi giorni fa a Dublino la scrittrice iraniana Azar Nafisi. Così, fra il 2003 e il 2007 Liberti ha condotto il suo primo piccolo reportage, intitolato “Professione Imam”, e pubblicato poi nell’antologia curata da Christian Raimo, Il corpo e il sangue d’Italia. Otto inchieste da un Paese sconosciuto (minimum fax, 2007). Il binomio Raimo-Liberti è di quelli pericolosi, perché nasce da una comune “irritazione della pelle”: dà loro fastidio vedere il nostro Paese “raccontato, iper-raccontato, straindagato, strarappresentato, senza che mai questo […] porti un dato di conoscenza reale né sia una provocazione etica”. Ancora l’importanza della conoscenza sopra la mera informazione. In quelle quasi 30 pagine, ci sono già in nuce tutti gli elementi del doppio viaggio di cui trattavo sopra: Liberti ci porta per mano dentro alla moschea romana di viale Marconi, a conoscere Sami, l’imam, e racconta con penna lieve cosa significa essere un imam nella capitale della cristianità, quando il resto della società intorno ti scruta se va bene con timore e malcelata tolleranza, o proprio con fastidio e desiderio di cacciarti via a mazzate.
L’avvicinamento al mondo di fede dell’imam Sami, alla sua singolare figura di basso profilo, al suo non interesse verso un riconoscimento finanziario o istituzionale da parte di alcuno Stato, unito però al proprio carisma di figura-leader in ambito spirituale, cercata e rispettata dai fedeli, non può non avere un effetto profondo anche sulla personalità open source di Stefano, novello antropologo destinato a farsi affascinare – ma non mai irretire – da uomini e storie ed emozioni così radicalmente opposte a quelle in cui lui stesso è stato cresciuto ed è diventato uomo. Molto gustose, in questo senso, le righe in cui Liberti descrive il suo impaccio e imbarazzo nell’essere capitato per errore all’interno di una funzione religiosa nella improbabile moschea, in mezzo a centinaia di musulmani intenti a pregare al loro tradizionale modo, in ginocchio e poi prostrandosi a terra. Il giornalista, non volendo risultare blasfemo né offendere nessuno, si è trovato addirittura a biascicare parole a mezza bocca nel tentativo di mimetizzarsi con i fedeli intenti nelle formule rituali del sajdah, ma a un certo punto la routine di quei movimenti corporei dettati dal resto del gregge ha avuto su di lui come un effetto di trance, così che l’imam che al termine della funzione lo ha salutato, gli ha chiesto “Non è che mi diventi musulmano?”
Lo stesso genere di empatia intelligente ed educata, in punta di piedi, la ritroviamo nell’altro reportage, A sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti (minimum fax, 2008, 2011) in cui il giornalista ha voluto indagare quel buco nero che esiste a meridione di Lampedusa, il moderno hic sunt leones su cui il precedente governo Berlusconi-Maroni ha costruito il proprio successo, terrorizzando milioni di italiani coll’immagine di una imminente invasione di disperati, a milioni. Miloni di esseri umani che naturalmente non c’erano, non sono stati fermati, e non sono mai venuti: si parla di 30mila ingressi all’anno dal nostro confine marino, vale a dire lo 0,04% della popolazione italiana. Esseri umani appena un po’ più abbronazati di noi (che all’estero siamo considerati non “bianchi” ma “olivastri”) e che uno scellerato trattato (oggi decaduto) fra Italia e Libia di Gheddafi, poi condannato dalla Corte Europea, è riuscito a far arrestare e imprigionare e torturare e uccidere dagli sgherri del precedente regime libico, in cambio di tanti, tanti schei, di riconoscimento internazionale per un dittatore bastardo e di perdita della dignità da parte del nostro ministro degli Interni, Roberto Maroni, e del suo degno compare, Silvio Berlusconi.
Ma là dove Stefano Liberti si è davvero superato sono stati gli ultimi due progetti: Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (minimum fax, 2011) tradotto in varie lingue incluso il coreano, e Mare chiuso, che è diventato anche un documentario pluri-premiato. Di questi due lavori parlerò in un prossimo post, perché se li liquidassi nel poco spazio che mi rimane, vi farei un grosso torto.
Sciltian Gastaldi
Scrittore e giornalista
Cultura - 31 Maggio 2015
Stefano Liberti, fra reportage e giornalismo d’inchiesta. Ti prende a schiaffi e poi ti accarezza
Anton Checov, parlando del reportage giornalistico, scrisse che il vero reporter non è colui che informa e si informa attraverso un’intervista, ma colui che parla con chi incontra lungo la strada, colui che si inserisce all’interno dell’ambiente che intende raccontare. In questo senso, ogni buon reportage giornalistico è una doppia forma di viaggio: quello geografico, o esterno, nei luoghi che il reporter vuole investigare e narrare a vantaggio del suo lettore, e quello personale, o interiore, che è il risultato di ciò che il giornalista diventa dopo aver incontrato le persone e i luoghi che ha conosciuto.
Leggendo i reportage del collega Stefano Liberti la sensazione di questo doppio viaggio ti prende a schiaffi e ti accarezza pagina dopo pagina. Classe 1974, figlio di una borghesia romana anticlericale e illuminata, Liberti si è ben presto imposto in un panorama giornalistico italiano nepotistico, asfittico e ombelicale, nella convinzione che quanto accade nella piccola penisola a forma di Stivale sia automaticamente di importanza mondiale. Eppure, in chiave quasi derridiana, è semmai quel che accade intorno allo Stivale a essere assurto negli ultimi vent’anni a rilievo internazionale, al punto che al giorno d’oggi sulla bocca di giornalisti, analisti, politici e personale delle Nazioni Unite capita più spesso il nome dell’isola di Lampedusa che non quello della Sardegna o della Sicilia.
L’avvicinamento al mondo di fede dell’imam Sami, alla sua singolare figura di basso profilo, al suo non interesse verso un riconoscimento finanziario o istituzionale da parte di alcuno Stato, unito però al proprio carisma di figura-leader in ambito spirituale, cercata e rispettata dai fedeli, non può non avere un effetto profondo anche sulla personalità open source di Stefano, novello antropologo destinato a farsi affascinare – ma non mai irretire – da uomini e storie ed emozioni così radicalmente opposte a quelle in cui lui stesso è stato cresciuto ed è diventato uomo. Molto gustose, in questo senso, le righe in cui Liberti descrive il suo impaccio e imbarazzo nell’essere capitato per errore all’interno di una funzione religiosa nella improbabile moschea, in mezzo a centinaia di musulmani intenti a pregare al loro tradizionale modo, in ginocchio e poi prostrandosi a terra. Il giornalista, non volendo risultare blasfemo né offendere nessuno, si è trovato addirittura a biascicare parole a mezza bocca nel tentativo di mimetizzarsi con i fedeli intenti nelle formule rituali del sajdah, ma a un certo punto la routine di quei movimenti corporei dettati dal resto del gregge ha avuto su di lui come un effetto di trance, così che l’imam che al termine della funzione lo ha salutato, gli ha chiesto “Non è che mi diventi musulmano?”
Ma là dove Stefano Liberti si è davvero superato sono stati gli ultimi due progetti: Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (minimum fax, 2011) tradotto in varie lingue incluso il coreano, e Mare chiuso, che è diventato anche un documentario pluri-premiato. Di questi due lavori parlerò in un prossimo post, perché se li liquidassi nel poco spazio che mi rimane, vi farei un grosso torto.
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Roma, 28 feb (Adnkronos) - "Tre miliardi di euro messi con tre mesi di ritardo. Speriamo che siano sufficienti. Nel frattempo la Meloni scappa anche dalle conferenze stampa, non solo dal Parlamento. Ormai parla solo attraverso video registrati, è diventata allergica alle domande. Doveva essere una lady di ferro, è sempre più “l’omino di burro” di Pinocchio". Lo scrive Matteo Renzi sui social.
Roma, 28 feb. -(Adnkronos) - "Oggi sono state presentate attività e obiettivi, il governo non può che essere accanto. Per esempio, nella parte dei fondi Pnrr per quanto riguarda i porti verdi” la comunità portuale ha “presentato 6 progetti e hanno già ottenuto oltre 8 milioni di euro”. È quanto affermato dal vice ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Vannia Gava, all’evento ‘Sblocchiamo il futuro’ organizzato da L’AdSP veneta e la Venezia Port Community.
L’obiettivo primario dell’incontro è stato approfondire e condividere i progetti e gli investimenti che mirano a rafforzare le prospettive di sviluppo sostenibile per gli scali lagunari, ragionando anche sulle modalità più efficaci, sostenibili e tempestive per superare gli ostacoli all’orizzonte per la portualità, una grande risorsa per il Veneto, per il Nord Est e per l’Italia.
“Anche per tutta la parte di autorizzazioni ambientali - riprende il vice ministro - stiamo facendo un grosso lavoro al ministero per quanto riguarda lo snellimento per ottenere le autorizzazioni e anche una serie di decreti che possono essere utili per quanto riguarda la parte dei dragaggi”, le sue parole.
Roma, 28 feb. (Adnkronos) - "Il provvedimento sulle bollette è debole e non strutturale. Il problema rimane quello delle rinnovabili iperincentivate che vendono anche quando il loro apporto è inutile, al prezzo del gas". Così Carlo Calenda sui social.
"Una follia in particolare su idroelettrico che arricchisce le imprese del settore a spese dei cittadini. Avevamo fatto una proposta chiara ma il governo non ha avuto il coraggio di attuarla. Molto positivo invece il primo passo fatto per il ritorno al nucleare, una battaglia che Azione ha condotto con forza dalla sua nascita".
Palermo, 28 feb. (Adnkronos) - "La politica di Trump di dazi mi preoccupa. Non mi sono mai pronunciato sino adesso, ma è chiaro che parlo anche da ex presidente del Senato. Sulla politica internazionale non mi compete esprimermi, potrei dire tanto ma mi taccio. Per quanto riguarda, invece, quella economica siamo preoccupati come credo lo siano tutti coloro che hanno a cuore l'andamento dell'economia italiana". Così il presidente della Regione siciliana, Renato Schifani, a margine della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario della Corte dei Conti.
"Le politiche protezionistiche non hanno mai risolto le tematiche economiche di un Paese, anche perché determinano controreazioni, dazi contro dazi - ha aggiunto -. Ho letto oggi sulla stampa che le quotazioni delle azioni di Trump e anche di Musk crollano e questa è una prima conseguenza. Mi auguro e sono certo che la reazione dell'Europa sarà univoca, ferma e dimostri una volta tanto di essere un'Europa anche dei popoli, non soltanto della moneta".
Roma, 28 feb. (Adnkronos) - La segretaria del Pd, Elly Schlein, risponderà domani a Repubblica sulla proposta, lanciata sul quotidiano da Michele Serra, per 'Una piazza per l'Europa'. Si apprende da fonti del Nazareno, interpellate sull'iniziativa.
Roma, 28 feb. (Adnkronos) - "Condivido e rilancio l'appello di Michele Serra su Repubblica: portiamo alta la bandiera Ue nelle piazze delle città capoluogo d'Italia, riaffermiamo con forza i valori di pace, libertà e democrazia che rappresenta, manifestiamo per la nostra Europa". Lo scrive sui social l'eurodeputato Pd, Matteo Ricci.
Roma, 28 feb. - (Adnkronos) - Il brano di Tommy Cash 'Espresso Macchiato', che rappresenterà l'Estonia all'Eurovision Song Contest, sta suscitando polemiche e perplessità, ma secondo Eddy Anselmi, autore ed esperto dell'Eurovision Song Contest, non ci sono gli estremi per escludere il brano dalla kermesse di Basilea o per chiederne la modifica. All’Adnkronos Anselmi ha minimizzato le possibili controversie legate all'uso della parola "mafioso" nel testo. "La canzone mi piace e non mi sembra offensiva", ha dichiarato. "Non più di quanto Joe Pesci fa su un certo tipo di italo-americano di Brooklyn in un film americano. Non penso che il brano prenda in giro l'Italia, ma un certo stereotipo di italiano all'estero". Anselmi paragona il linguaggio del brano al "broccolino", la varietà linguistica parlata dagli italo-americani di Brooklyn, e ai personaggi dei film interpretati da Joe Pesci. "Quel misto italiano-spagnolo con 'por favore' e 'bella' sembra uscito da un film del Padrino", osserva.
Per l'esperto, "non ci sono gli estremi né per l'esclusione né per richiedere la modifica del brano, e nemmeno per l'indignazione". Riguardo alla parola "mafioso", Anselmi afferma: "La parola mafia l’abbiamo inventata noi, ma fa parte del gergo internazionale come 'crescendo', 'bravo', 'caffè' e 'pizza'. Quando c'è la mafia russa si parla anche in inglese di 'mafia'. Purtroppo, abbiamo inventato anche una brutta parola, come gli olandesi del Sudafrica hanno inventato 'apartheid', che appartiene al gergo internazionale".
Anselmi cita anche il caso di ‘Occidentali's Karma’ di Francesco Gabbani, che conteneva riferimenti alle culture orientali, ma non suscitò polemiche. "Non ci fu nessun tipo di polemica, neanche a livello di appropriazione culturale", ricorda. L'esperto, però, esprime una riserva sul ritratto dell'Italia offerto da Gabry Ponte nel brano ‘Tutta l’Italia’ selezionato per il San Marino Song Contest, la competizione che l’8 marzo sceglierà il brano che rappresenterà il piccolo stato all’Eurovision: "Personalmente mi piace meno quel ritratto dell'Italia, che trovo greve. Se arrivasse a vincere la selezione sammarinese per cui è stato selezionato il riferimento a Craxi e alle monetine potrebbe essere modificato, in quanto potrebbe essere considerato un riferimento politico a una figura ancora controversa in Italia".
L'Eurovision da regolamento è un evento non politico e nel corso degli anni, diverse canzoni presentate al contest hanno subito modifiche o sono state ritirate a causa di riferimenti geopolitici. Eddy Anselmi cita alcuni esempi significativi. Nel 2007, la cantante ucraina Verka Serduchka dovette modificare il titolo del suo brano, inizialmente solo ‘Dancing’. Il ritornello conteneva la frase ‘Lasha Tumbai’, che, spiega Anselmi, "non vuol dire niente ma suonava come 'Russia goodbye'".
Questo provocò le proteste della Russia, che, nel contesto della prima Rivoluzione Arancione in Ucraina, fece ricorso all'Ebu. L'ente impose all'Ucraina di aggiungere ‘Lasha Tumbai’ al titolo della canzone. Nel 2015, l'Armenia presentò ‘Don't Deny’ (Non Negare) dei Genealogy, un brano che alludeva al genocidio armeno e che provocò le proteste della Turchia. Proteste accolte dall’Ebu e il titolo fu modificato in ‘Face the Shadow’.
Un altro caso recente è quello della Georgia del 2009. L'anno precedente, il paese aveva affrontato la guerra dei cinque giorni contro la Russia e le repubbliche separatiste di Ossezia del Sud e Abcasia. All'Eurovision di Mosca del 2009, la Georgia presentò ‘We Don't Wanna Put In’ di Stefane & 3G, un brano in inglese che, per i suoi presunti riferimenti a Vladimir Putin, suscitò immediate polemiche. L'Ebu chiese alla Georgia di modificare il testo o di presentare una nuova canzone. Il paese rifiutò e si ritirò dalla competizione. Senza contare che l’anno scorso la canzone di Israele che si chiamava ‘October rain’ fu modificata in ‘Hurricane’ perché il tema era considerato politicamente sensibile. "Tutti questi casi sono figli di tensioni geopolitiche", conclude Anselmi, un contesto ben diverso da quello del brano estone. (di Loredana Errico)