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Livorno, prete si impicca in canonica. Lettera accuse al vescovo: “Mi trasferisce”

Don Carlo Certosino, 54 anni, da 15 era parroco nella chiesa di Ardenza. Dal primo luglio avrebbe dovuto cambiare chiesa per decisione della diocesi. Ma lui non accettava la decisione e aveva protestato, sostenuto anche da alcune decine di fedeli. Pochi giorni fa uno scritto diretto al prelato: "L'ultima delle ingiustizie che ho dovuto subire in questi anni". Ma il vescovado: "Era tutto concordato da tempo"
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Si è impiccato nel sottotetto della canonica, dentro al campanile. Don Carlo Certosino, 54 anni, parroco della parrocchia di San Simone, nel quartiere residenziale di Ardenza, “non era più lui” dicono i fedeli. Il vescovo Simone Giusti, infatti, voleva trasferirlo in un’altra chiesa della città: un’operazione che sarebbe dovuta concludere il primo luglio. E ora spunta anche una lettera scritta pochi giorni prima del suicidio e indirizzata proprio al vescovo: “Caro vescovo, il trasferimento che hai deciso è solo l’ultima delle ingiustizie che ho dovuto subire in questi anni”. Poi l’affondo: “Adesso potrai esser contento, ma sappi che mi avrai per sempre sulla coscienza”. Le polemiche per la sostituzione del prete avevano raggiunto il loro apice il 9 maggio quando il vicario del vescovo don Ivano Costa lesse alla fine della messa il decreto di trasferimento. I circa 300 fedeli presenti contestarono la decisione con parole pesanti, tributando invece don Certosino – che aveva seguito la messa dal presbiterio – con un lungo applauso. 

Livorno, prete si impicca in canonica e lascia lettera di accuse al vescovo
Livorno, prete si impicca in canonica e lascia lettera di accuse al vescovo
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Così ora la morte di don Certosino viene letta in città sotto un’altra luce. Don Certosino era a conoscenza da circa un anno che il prossimo 1 luglio si sarebbe dovuto trasferire. Il parroco però non ha mai digerito la decisione del vescovo e per questo lo aveva attaccato anche di recente: “Ho passato un anno terribile, questo spostamento lo vivo come una vendetta” si era sfogato l’11 maggio ai giornali. Il sacerdote aveva dichiarato di aver avuto in passato “divergenze forti” con monsignor Giusti “su questioni delicate che riguardano anche alcuni preti”. Il trasferimento a Santa Caterina? “Non ho niente contro quella comunità, ma è un posto adatto a chi inizia il sacerdozio”. Nel mirino anche lo stile “troppo autoritario” del vescovo, uno stile “lontanissimo da quello di papa Francesco”. Il vescovo ha subito trasmesso un messaggio di cordoglio: “Con immenso dolore il vescovo e il consiglio episcopale storditi, e stupiti, piangono la perdita di don Carlo. Ora è nelle mani di Dio e quindi è in buone mani. Sono mani che conoscono la croce e la disperazione. A queste mani affidiamo il nostro fratello sacerdote. Preghiamo per lui, per i suoi familiari, per la Chiesa tutta di Livorno”.

Nei giorni successivi alle polemiche e alle proteste di don Certosino il vescovo precisò però che “con don Carlo avevamo concordato tutto un anno fa” e di “essere dispiaciuto come un padre quando sente il proprio figlio dire delle bugie”. A metà maggio la diocesi aveva anche notificato al parroco un provvedimento “ammonitivo” per quanto avvenuto nelle celebrazioni eucaristiche del 2 e 3 maggio: “Al posto dell’omelia – si legge nel provvedimento firmato dal vicario giudiziale don Alberto Vanzi – don Carlo ha esortato i fedeli lì presenti ad assumere atteggiamenti di disobbedienza e di ribellione”. Il compito di un parroco dovrebbe infatti esser quello di “guidare il gregge che gli è stato affidato e non quello di eccitare i fedeli alla disobbedienza verso una decisione del vescovo”. La diocesi precisò inoltre che il parroco aveva rassegnato le dimissioni il 24 maggio 2014 “a decorrere dal 1 luglio 2015” e che il vescovo aveva accolto “paternamente la supplica di don Carlo di restare ancora un anno in parrocchia per far maturare in lui la decisione di trasferimento”. E’ proprio per questo che venne convenuta “con don Carlo la soluzione delle dimissioni post-datate, per altro conformi alla prassi canonica”.

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