Cinema

“Sei vie per Santiago”, in un film le storie dei 900 chilometri dei pellegrini del Duemila

Dall'americana Annie che piange dopo aver ricevuto una gentilezza inaspettata ai vecchi amici Jack e Wayne per i quali la vita non finisce a 70 anni se c'è qualcosa da vedere. Nella pellicola di Lydia Smith (ferma per 5 anni per mancanza di fondi) il racconto in presa diretta di chi cerca le domande più che le risposte nel sentiero del nord della Spagna che vede passare persone in cerca di fede o di sé da 1100 anni

di Diego Pretini
“Sei vie per Santiago”, in un film le storie dei 900 chilometri dei pellegrini del Duemila

Per esempio c’è Annie. Annie che piange. Singhiozza. La sera prima, in un ostello, si è dovuta sistemare in un letto attaccato a un altro: “Chissà chi arriva, speriamo non sia un uomo, se poi arriva uno di quelli strani…”. E’ un tedesco, quello che arriva: strano, parla strano. Chiacchierano un po’, lei diffidente. Poi lui si volta a parlare con i suoi amici. Al mattino Annie si sveglia prima del tedesco e parte. È piena di dolori, zoppica, cammina lentissima, ha le gambe a pezzi. Va pianissimo. Sente da dietro qualcuno che si avvicina e distingue: “È l’americana”. È il tedesco. Le prende lo zaino e glielo porta per l’intera tappa, 20 chilometri e rotti. Ecco perché Annie piange: “Non credo di essere mai stata così gentile con qualcuno nella mia vita. E ora che mi sono fermata e lui ha proseguito, mi accorgo che non so nemmeno il suo nome”.

Oppure c’è Martha che non trattiene il sorriso, la gioia. Ha superato i cinquanta da un po’, è ancora innamorata di suo marito. Ma non glielo dice mai. È sempre lui a dirle “ti amo” e lei a rispondere “anch’io”. Questa volta no. In mezzo a una tappa, in mezzo a una valle, in mezzo alla Spagna, dall’altro capo del mondo in un momento qualunque ha preso il telefono e ha chiamato suo marito: “Ti amo”. “Lui mi ha risposto esterrefatto: scusa, cos’è che hai detto? Ancora!”.

“Qui per la prima volta sono riuscita a dire a mio marito: ti amo”

Per far fuori la retorica (pro e anti) dal racconto di un fenomeno ritenuto (anzi accusato di essere) “di moda” come il Cammino di Santiago dovrebbero parlare prima, sempre, le storie degli uomini e delle donne che decidono di mettersi in viaggio. Bastano quelle per asciugare la melassa di chi scambia il Cammino per una roba pseudosessantottina e mezzo-libertaria con 40 anni di ritardo o, dall’altro lato, l’acidità da mujaheddin che, come Camillo Langone, chiama i pellegrini di oggi “escursionisti kitch” e “turisti della scarpinata” che camminano solo per il loro diarietto di viaggio.

E infatti, visto che queste cose non c’entrano niente, Sei vie per Santiagodocu-film in proiezione in 24 sale in Italia (anche in cinema parrocchiali, come a Milano), si limita a fare di tutte le lezioncine una palletta di carta destinate al cestino della sicumera. La pellicola –  ferma per 5 anni perché nessuno aveva voglia di produrla (ora esce dopo una grande colletta mondiale da mezzo milione di dollari) – racconta sei modi diversi di vivere quegli oltre 900 chilometri da Saint Jean Pied de Port a Santiago de Compostela, appunto, in un viaggio che oltre allo spazio attraversa i secoli, dal nono dopo Cristo.

Sei modi e ce ne potrebbero essere seicento o seimila. Lydia B. Smith, la regista, aveva seguito con le sue telecamere una quindicina di persone ma se avesse voluto mettere davvero tutto, avrebbe fatto un documentario di 15 ore (parole sue). Vincitore di un numero imprecisato di festival di cinema indipendente nel mondo, con parole di stima da New York Times e Washington Post, Sei vie per Santiago è nato perché alla Smith il Cammino era rimasto dentro: lo aveva fatto nel 2008, ma non ha finito il suo percorso finché non è riuscita a raccontarlo come voleva lei. “L’obiettivo – racconta – non era mostrare il mio punto di vista, ma condividere ogni esperienza comune con tutte le persone che affrontano il Cammino, proprio come succede durante il pellegrinaggio. Volevo girare un film che, guardandolo, rendesse partecipi gli stessi spettatori, come se fossero stati loro stessi pellegrini in viaggio”.

I sei “cammini” sono quelli di Annie, che è di Los Angeles e affrontando sforzi e dolori, subidas y bajadas, riuscirà a accettare di ridimensionare il suo spirito arci-americano dell’invincibilità e della competitività (“Mi superano tutti. Sento i loro bastoncini che fanno tuk-tuk-tuk-tuk, poi dicono ‘Buen camino’ e procedono. L’altro giorno uno aveva più di 80 anni”); di Misa, la danese, che era partita per fare tutto da sola e invece ha incontrato William, canadese, di dieci anni più giovane, l’unico capace a stare dietro al passo svelto di lei (“Non saremo mai una coppia” spiega lei all’inizio, ma è tutto da vedere); di Tomàs, trentenne portoghese e belloccio, che però per tutto il film parla dei suoi dolori fisici (sì, le vesciche che seghettano i piedi, i tendini che scoppiano, le ginocchia che fanno male per le discese) e li vince anche per l’amicizia immediata di un gruppetto di coetanei spagnoli che per metterlo a suo agio lo chiamano el niño, il bambino; di Sam, brasiliana, quasi depressa, senza lavoro, senza fidanzato e senza casa, sempre fissata con il pettine e i trucchi (e qui invece impara a fare a meno di tutto): “Mi dicevano: vedrai che troverai le risposte che cerchi. Ma io non avevo nemmeno le domande”; di Tatiana, francese cattolicissima di 26 anni, che mentre cammina prega ma spinge anche il passeggino dove siede il suo Cyrian, di 3 anni, per cominciare a fargli vedere un po’ com’è la vita (cioè a un certo punto il passeggino finisce); e di Jack e Wayne, infine, due canadesi, amici fin da giovani: il primo, 73 anni, è un sacerdote che ha celebrato il rito funebre per la moglie del secondo, rimasto vedovo a 61 anni. E dice: “La vita non finisce a 60, 70 o a 80 anni. Finché c’è qualcosa da vedere. Dobbiamo essere pronti ai cambiamenti, a riscoprire sempre se stessi”.

Ma dopo tanti libri e tanti film, da un Buñuel del 1968 al The Way di Emilio Estevez e Charlie Sheen (una specie di lavoro di sartoria), cosa potrà mai raccontare in più, ancora, un docu-film come questo? Non è che serve solo ai melanconici-nostalgici per farsi i loro 5 piantini in un’ora e mezzo da escursionisti kitch finto-libertari? No. Ci sono di sicuro almeno due impronte che restano.

“Il Cammino è una pura medicina. Riesce a curare le molte ferite che ci sono nel cuore e nell’anima”

La prima è quella che può raccontare chiunque dei circa 200mila pellegrini che ogni anno prendono la credencial e vanno a conquistarsi la compostela centinaia di chilometri più a ovest: “Il Cammino è una pura medicina – dice un frate, Paco, nel film – Riesce a curare le molte ferite che ci sono nel cuore e nell’anima”. Anche per questo uno esce da Santiago e gli viene il tic da filosofo da quattro soldi. Ma ognuno lo chiami come vuole: chi è cristiano, prega; chi non crede, si trova in mezzo alla natura e, diceva quel signore, Deus sive Natura. E tutti – cristiani e non – si trovano dentro una comunità nella quale – come racconta uno dei pelegrinos – nascono rapporti che sono molto più autentici e intensi di quelli quotidiani, colleghi, vicini di casa, parenti, quelli che con generosità finiscono sotto la parola “amici”. “A casa avrei detto: voglio il mio spazio – racconta Misa, la danesina – Qui sto con William tutto il giorno e ci separiamo solo per andare al bagno”.

E qui dentro sta la seconda impronta. Il rapporto con gli altri farà vedere altri occhi quando capiterà di trovare uno specchio:  “Quando fai il cammino – scandisce nel film Ana Maria, una hospitalera – la maschera scompare e ti trasformi in te stesso”. È come se riconoscessi un vecchio amico: te ai tempi di quando eri libero di essere te. “C’era un tizio russo – dice Sam, la brasiliana un po’ ruspante – che mi diceva in continuazione come dovevo fare cosa. Addirittura quando mi ha prestato il dentifricio mi ha detto di bagnare prima lo spazzolino. Gli ho risposto che mi lavo i denti da 30 anni. Ma lì mi sono accorta che quello che mi infastidiva è esattamente quello che faccio io quando pretendo di spiegare agli altri quali debbano essere i loro sentimenti, il loro stato d’animo e come devono vivere”.

“Quando fai il cammino la maschera scompare e ti trasformi in te stesso”

Religione nel senso etimologico: re-ligio, tutto si lega, ogni elemento sembra andare al proprio posto, perfino il bene per chi ci sta accanto (nella vita) assume contorni definiti e significato. Il Cammino – dicono queste storie – restituisce la fede che per qualcuno (Tatiana, la mammina francese) è nell’Onnipotente e per qualcun altro (Sam, Misa) è in quelli che gli girano intorno. Se la fiducia negli altri viene presa a botte, resta la fede. E resta il modo per passare oltre: basta allungare un po’ il passo e c’è qualcun altro che aspetta più avanti. Gli uomini e le donne, con la loro piccola sostanza, in una vita schiacciata da falsi bisogni, rischiano di abbrutirsi, tradire,  scappare, autoassolversi (tutti diritti, nessun dovere) e, nel mondo sempre bulimico di iperconnessione, tutto finisce per essere a somma di poco più di zero: nulla ha più valore, né il bene né il male. Il Cammino – e il film questo grida – restituisce senso alle parole, alle emozioni e ai sentimenti, nobiltà, fiducia in chi e in cosa capita di trovarsi di fianco, senza un solo telefono a gettoni. Il prossimo con cui si parla per davvero non si trova su Whatsapp, ma lungo la strada: non si sa come si chiama e non si è mai visto prima, però si fermerà a chiedere se si ha bisogno di qualcosa. Con lui o con lei si potrà condividere la bellezza del mondo senza nemmeno bisogno di dirselo e, con un po’ di fortuna, il coraggio e la serenità di starci dentro.

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