Un coacervo di interessi convergenti dietro alla strage del Rapido 904, l’attentato che il 23 dicembre del 1984 uccise 17 passeggeri del treno espresso partito da Napoli e diretto a Milano. Lo scrivono i giudici della corte d’assise di Firenze, che il 14 aprile scorso hanno assolto il superboss Salvatore Riina dall’accusa di aver ordinato l’eccidio. “Non può escludersi – scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza – che abbia trovato coagulo un coacervo di interessi convergenti di diversa natura” nella decisione, organizzazione ed esecuzione della strage di Natale.

Il processo a Riina si era aperto nel novembre del 2014, ma dopo sei mesi di udienze la corte d’assise fiorentina, presieduta da Ettore Nicotra, ha assolto il capo dei capi di Cosa Nostra, indicato come mandante della strage. Secondo i giudici,  nessuno tra i vari collaboratori di giustizia ascoltati come testimoni  del processo “era a conoscenza che la strage fosse riconducibile a un mandato, istigazione o consenso di Riina”.

Motivando la sentenza di assoluzione, la corte mette nero su bianco che la strage “indubbiamente giovava alla mafia, ma non ne recava la tipica impronta”. L’attentato, infatti, colpì in maniera”feroce e del tutto indiscriminata inermi cittadini” seguendo “una logica squisitamente terroristica”, eppure – prosuegono sempre i giudici – “l’evoluzione storica pare smentire qualsiasi linea di continuità strategica” tra la strage del 23 dicembre 1984 e quelle degli anni Novanta. Secondo il pm Angela Pietroiusti, infatti, la strage del Rapido 904 fu il primo atto di guerra allo Stato messo in campo da Cosa Nostra: un’escalation che sarebbe poi culminata con le stragi del 1992 e 1993. Secondo Giulio Vadalà, dirigente della polizia scientifica che ha deposto durante il processo, l’esplosivo utilizzato per l’attentato al Rapido  “era dello stesso tipo utilizzato nella strage di via D’Amelio (scattata il 19 luglio del 1992 per assassinare il giudice Paolo Borsellino ndr), ma ci sono analogie con i materiali utilizzati nella strage di Capaci e le stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze”.

La corte però smentisce un possibile collegamento tra le stragi degli anni Novanta e l’attentato al Rapido, focalizzando la propria ricostruzione sulle condanne diventate definitive nel 1992.  Dopo la prima inchiesta, infatti, erano stati condannati per l’eccidio Pippo Calò, il boss di Porta Nuova che gestiva le casse di Cosa Nostra a Roma, Guido Cercola, Francesco Di Agostino, e l’artificiere tedesco Friedrich Schaudinn. L’ex parlamentare del Msi Massimo Abbatangelo era stato invece condannato soltanto per la detenzione dell’esplosivo  insieme a quattro camorristi: Giuseppe Missi, Giulio Pirozzi, Alfonso Galeota e Lucio Luongo. Secondo i giudici, proprio “i legami con esponenti della banda della Magliana”, vantati da Calò, ponevano il boss di Porta Nuova come tramite tra “il potere mafioso ed ambienti eversivi di destra“.

Tra gli anni ’70 e ’80  Calò godeva di un “certo grado di autonomia” all’interno di Cosa Nostra, e vantava una serie di “relazioni collaterali” con ambienti vicini alla camorra e all’estrema destra: questo – concludono i giudici – “avvalora il dubbio che non abbia avuto la necessità di avere impulso, autorizzazione o consenso di Riina”. Come dire che il capo dei capi nulla sapeva dei rapporti gestiti da Calò nella capitale.

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