Jassey è alle prese con la sua macchina da cucire già dalle prime ore del mattino. C’è una sfilata da preparare, e gli abiti vanno adattati bene alle misure. Siamo a Roma, nel cuore del centro Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) Eta Beta. Loro sono i Karalò: Jassey, Malang, Adama e Muyey, vengono dal Mali e dal Gambia e hanno deciso di fondare un laboratorio sartoriale.
“Il progetto è nato quasi per caso: qualche mese fa Jassey ha avuto la possibilità di partecipare ad un corso di cucito promosso dal Casale Podere, a San Basilio. Era l’unico uomo in mezzo a tutte donne”, racconta con entusiasmo Luigi, responsabile del progetto per conto della cooperativa Eta Beta. Il corso, però, è di breve durata, e anche se Jassey è molto preso arriva per lui il momento di tornare al centro, alla vita di tutti i giorni. “Quando tutto è finito, come operatori ci siamo detti che non potevamo illuderlo in quel modo”.
“Hanno preso un foglio A4 disegnando con i pastelli il loro nuovo slogan: Karalò Roma”, racconta Giulia, operatrice della cooperativa Eta Beta
Poi, scatta l’idea. Jassey lavorava in una sartoria in Gambia così come Malang, Adama e Muyey. Nel centro c’è una macchina da cucire, una vecchia Singer nera, che proprio Muyey ha ricevuto in regalo. Perché non far incontrare la loro passione per il cucito? Detto, fatto. La prima creazione dei ragazzi è proprio il nome: “Hanno preso un foglio A4 disegnando con i pastelli il loro nuovo slogan: Karalò Roma”, racconta Giulia, operatrice della cooperativa Eta Beta.
In mandinga, infatti, Karalò significa proprio sarto. Il nome è la sintesi perfetta del loro passato e del loro presente. Jassey e compagni sono arrivati a Roma nel novembre del 2013. Da un anno sono ospiti della cooperativa, insieme ad altri 88 migranti. A gennaio 2015, così, i ragazzi iniziano con molto entusiasmo a creare i primi oggetti: da semplici borse a portatabacchi. “Fanno quello che hanno sempre fatto nei loro Paesi d’origine. Non è un progetto che tentiamo di imporre o consigliare loro. È qualcosa che è già nelle loro vene”. E con il passare del tempo arrivano anche le macchine da cucire. Una da Bari, una donata dalla nonna di Giulia, un’altra arrivata da Bergamo, una da Lecce, una da Roma, regalate da parenti e cittadini privati. I Karalò se le aggiustano da soli, le loro macchine da cucire. E così cominciano a realizzare i primi vestiti più elaborati, i primi prodotti in perfetto stile africano.
“Fanno quello che hanno sempre fatto nei loro Paesi d’origine. Non è un progetto che tentiamo di imporre o consigliare loro. È qualcosa che è già nelle loro vene”
La stanzetta del centro Eta Beta in zona Rebibbia è un trionfo di colori, stoffe, creazioni, vestiti. Ogni giorno, dopo la colazione, i Karalò si impegnano nel loro laboratorio. Nel pomeriggio, invece, i quattro partecipano ai corsi di italiano. “Per loro imparare la lingua è fondamentale. Non si perdono nemmeno una lezione”, racconta Jorge, operatore del centro. La cooperativa comincia a credere nel progetto, mettendo a disposizione dei ragazzi una piccola quota mensile da utilizzare per comprare stoffe, tavolini espositivi e materiali utili. E la solidarietà dei romani non manca: tappezzieri e sarti, infatti, donano materiali a Jassey e compagni. I ragazzi in poco tempo riescono a mettere da parte un piccolo fondo cassa con cui gestire l’attività e ricomprare le stoffe più vicine al loro gusto.
L’obiettivo del progetto? In primis l’inserimento lavorativo. “Stiamo facendo di tutto per regolamentare la produzione, per dare ai ragazzi la possibilità di continuare questa attività anche in maniera autonoma, una volta fuori dal centro. Grazie al progetto, inoltre, miriamo anche a favorire l’integrazione e la socializzazione tra gli ospiti: sarebbe davvero bello iniziare un nuovo percorso, dando la possibilità ai tanti migranti di cimentarsi in attività simili. Sarebbe una valida alternativa alla noia delle loro giornate”, commenta ancora Luigi. “È fondamentale dare loro autonomia. È il minimo che possiamo pensare ed auspicarci per loro e per chi come loro resta parcheggiato per due anni in attesa di documenti che possano decretare lo status di rifugiato o di lavoratore. Se solo la burocrazia fosse meno soffocante e i tempi più brevi si potrebbe pensare di realizzare tanti progetti simili”.
“Due anni di attesa per lo status di rifugiato o di lavoratore. Se solo la burocrazia fosse meno soffocante si potrebbero realizzare tanti progetti simili”
Il secondo obiettivo, invece, è quello di ricalcare questa esperienza per riproporla all’interno del centro, per utilizzare ed esplorare le competenze e le conoscenze dei beneficiari. “È fondamentale ascoltare questi ragazzi: è da loro, dalle loro esigenze, dai loro sogni che possono e devono partire i progetti”.
Ad oggi i ragazzi di Karalò Roma hanno partecipato a più di 20 eventi sul territorio, tra fiere, feste in strada e in piazza, mercati del commercio equo e solidale. Tra i tanti inviti ce n’è uno curioso arrivato dalla provincia di Torino. “Non sappiamo come siamo riusciti ad arrivare fin lì – racconta Luigi – Ma per il momento restiamo con i piedi per terra. Torino è troppo lontana e il viaggio costa”. I sogni dei quattro ragazzi di Karalò, invece, volano veloci.