La sveglia suona presto ogni mattina, non ci sono sabato o domenica che tengano. Si lavora con fatica 365 giorni all’anno in mezzo al fieno delle stalle o tra il vapore dei caseifici da cui escono forme di Parmigiano Reggiano da stagionare, per poi essere marchiate a fuoco e vendute. Il re dei formaggi Dop, conosciuto e imitato in tutto il mondo, finisce sul mercato a 7 euro al chilo, ma di quei soldi i produttori e gli allevatori nelle loro tasche ormai vedono arrivare poco più che briciole. I costi di produzione faticano a essere coperti e gli operatori della filiera, strozzati dal calo dei prezzi della grande distribuzione, dalla crisi economica e dalla concorrenza dei prodotti “similgrana” che spopolano sui banchi frigo, chiedono più trasparenza e più tutele da parte del Consorzio Parmigiano Reggiano, l’ente che li riunisce e vigila sul sistema. “Nel 2013 abbiamo avuto un margine di 5 euro a quintale di latte – spiega Paolo Tamani, presidente della Latteria La Colornese di San Polo – Alla fine di guadagno ormai non mi rimane più nulla, ma dobbiamo andare avanti, in questa zona dobbiamo fare il Parmigiano, se no siamo finiti. Con questo prezzo si muore”. Contando che per fare una forma di 40 chili servono circa 5 quintali di latte, è chiaro che diventa sempre più difficile far quadrare i bilanci. Anche perché il saldo della vendita avviene dopo la stagionatura, dai 12 ai 24 mesi dopo che le forme sono uscite dai caseifici, mentre l’investimento e le quote per far parte del Dop sono dati in anticipo sulla lavorazione.
Il Consorzio, che lo scorso luglio ha tagliato il traguardo degli 80 anni e conta sotto il suo blasone 348 caseifici per 3310 allevatori, è l’altra faccia della medaglia del Parmigiano Reggiano. Ha il compito di tutelare e promuovere il marchio, controllando che gli affiliati rispettino le normative per rientrare nella Denominazione di Origine Protetta, e per accedervi bisogna rispettare rigidi criteri di qualità, come quella degli zero additivi e conservanti. I produttori pagano all’ente 6 euro per ogni forma prodotta, che vale come l’equivalente di una quota associativa. In totale, visto che la produzione annua complessiva si aggira mediamente intorno a 3,3 milioni di forme marchiate a fuoco, nelle casse del Consorzio arrivano circa 20 milioni di euro di contribuzione ordinaria. A questi si aggiungono gli introiti delle sanzioni agli operatori che superano il limite quantitativo fissato dalle cosiddette quote latte, che a livello europeo sono scomparse, ma che per il Parmigiano Reggiano sono state attribuite direttamente agli allevatori (invece che ai caseifici) per non far crollare i prezzi e programmare l’offerta. Non tutti però nel mondo agricolo vedono di buon occhio la decisione, ritenuta lesiva per la filiera, e si chiede più trasparenza anche sull’utilizzo delle sanzioni versate, che dovrebbero essere investite dal Consorzio in attività di vigilanza, ma di cui nello specifico non si conosce la destinazione. “Il prezzo del latte da stalla è uno dei più bassi degli ultimi anni, recentemente c’è stata una drastica riduzione delle aziende da latte e di produzione di Parmigiano – spiega Paolo Golfrè Andreasi, un allevatore del mantovano – La ricetta delle quote Parmigiano non porta vantaggi al mercato, ma danneggia i produttori”. Il presidente Giuseppe Alai, al suo terzo mandato alla guida dell’ente di tutela, si dice invece soddisfatto e sicuro che la scelta gioverà al marchio e anche ai suoi associati: “Questo è un momento difficile per le produzioni di qualità perché ci sono costi maggiori – ha spiegato – Noi abbiamo ottenuto il permesso di mantenere una produzione limitata, che difende il prodotto dalla concorrenza in un momento in cui l’eliminazione delle quote latte ha aumentato l’offerta di formaggi”.
I malumori all’interno del Consorzio ci sono, anche se Alai, che oltre al ruolo di guida dell’istituzione ricopre una ventina di incarichi tra cui quelli ai vertici di Banco Emiliano e Confcooperative, gode di una maggioranza bulgara, che lo scorso aprile ha votato quasi all’unanimità (294 voti favorevoli su 314) un bilancio con un buco di circa un milione di euro. La colpa della perdita, dicono i produttori, è della società partecipata I4S, una controllata che avrebbe dovuto rilanciare l’export e invece si è rivelata un’altra voragine aperta sul Parmigiano. Un errore che il presidente riconosce, anche se scarica la colpa sul crollo delle quotazioni sul mercato: “Ci sono annate buone e altre difficili. È giusto lamentarsi, ma da quattro anni i produttori possono partecipare alle assemblee, è giusto che si facciano parte attiva”.
Dei 20 milioni che il Consorzio incassa ogni anno, circa 8,4 sono spesi nella struttura per la tutela e la vigilanza, mentre 11 milioni sono utilizzati metà per la promozione del Parmigiano in Italia e l’altra metà per quella sul mercato estero, a cui è destinato un terzo della produzione pari a 1,1 milione di forme. Eppure, nel Consorzio che tra i maggiori compiti ha proprio quello della vigilanza, negli ultimi tempi non sono mancati gli scandali, tra inchieste su prodotti contraffatti che hanno coinvolti alcuni pilastri del settore, un’indagine sul direttore Riccardo Deserti e le polemiche sui controlli dei prodotti che sembrano sempre insufficienti. Alai ha assicurato che il Consorzio si costituirà parte civile nei processi che riguardano il Parmigiano, e che alcune inchieste sono partite proprio grazie alle segnalazioni dell’ente.
Poi c’è la concorrenza, spesso con gli stessi produttori di Parmigiano. Chi può, fa affari con l’estero, producendo addirittura similgrana che arriva sui mercati a prezzi inferiori del valore di quello consortile. In passato la questione aveva lambito anche lo stesso Alai, che attraverso un incastro di partecipazioni a scatole cinesi figurava tra le cariche di una società che portava a un’azienda straniera produttrice di Parmensan in Ungheria. “Falsità messe in giro ad arte, a cui ho già replicato” ha sottolineato. La verità però è che non ci sono divieti per i produttori di Parmigiano Reggiano che vogliano fare soldi anche con altri tipi di formaggio, tranne quello di non potere avere cariche dirigenziali all’interno del Consorzio. “Noi non possiamo imporre limiti – continua il presidente – Abbiamo il compito di vigilare sulla qualità dei prodotti nel nostro marchio, ma non possiamo impedire che uno stesso produttore guadagni con altre lavorazioni, se rispetta i nostri parametri”.
Anche per fronteggiare questo problema il Consorzio continua a puntare sull’export, raddoppiato negli ultimi cinque anni. Dopo il periodo di crisi dovuto all’embargo russo, a gennaio e febbraio le esportazioni sono cresciute del 10,1 per cento. Un dato che fa sperare, anche se la produzione nel mese di aprile ha registrato un calo pari all’1,2 per cento e un saldo quadrimestrale negativo per l’1,9. “Il problema – chiarisce Alai – è che il mercato del Parmigiano non è prevedibile, si lavora sul futuro senza sapere come saranno la domanda e l’offerta. Ma è anche un mondo molto diviso, con forti spinte all’autonomia. Per questo, avendo un marchio collettivo, sarebbe importante anche fare sistema, essere uniti, per cercare di creare una nuova cultura produttiva”.