La storia di un padre per raccontare le vite di tanti operai, attraverso un viaggio nel tempo e nel dolore personale. Donato Chirico ha lottato per metà della sua esistenza contro un’insufficienza epatica, diventata poi un cancro. È morto nel 1996. Diciannove anni dopo sua figlia Rosangela ha cucito minuziosamente cartelle cliniche, ricordi d’infanzia, incongruenze e testimonianze in un libro. Plastica (170 pagine, 13 euro, Kurumuny) è un romanzo civile per tenere viva la memoria delle decine e decine di operai dello stabilimento Montecatini di Brindisi colpiti da tumore e leucemie. Morti sospette, così sono sempre state catalogate.
Questo al momento rimangono e probabilmente rimarranno per sempre. Perché a differenza del polo gemello di Porto Marghera, in Puglia non si è mai arrivati a una verità giudiziaria. Resta però la storia e un numero enorme di malati e caduti tra chi negli anni ’60 e ’70 lavorava in quello stabilimento che agli occhi della Chirico, da bambina, appariva come una fabbrica di zucchero. La polvere bianca, scoprirà più tardi, era cloruro di vinile monomero. E sarà la sigla di quella sostanza, la base della plastica, il filo conduttore della sua seconda esistenza. Inizia pochi giorni dopo il decesso del padre, quando con le pillole che lo avevano accompagnato negli ultimi mesi di malattia intreccia un rosario. “Sono andata ad appoggiarlo sul suo comodino e ho giurato sul suo nome che la verità l’avrei cercata sgranando il rosario della nostra vita, finché Dio me lo avesse concesso”.
È una lotta dura, spigolosa, fatta di lunghe attese e dubbi mai dissolti. “Avevo intuito che il P17 – il suo reparto di lavoro – procurava intossicazioni mortali. Avevo intuito che alcune precauzioni adoperate dall’azienda a tutela della salute di mio padre non coincidevano con gli stadi avanzati della sua malattia. Non esisteva possibilità di coesistenza tra gli ambiti lavorativi e i suoi ricoveri continui”, scrive l’autrice. Un’idea che a cavallo tra la fine degli Anni Novanta e il nuovo millennio aveva mosso anche la Procura di Brindisi, che indagò 69 persone scontrandosi con un’assenza pesante: nessun caso di angiosarcoma epatico, l’unico tumore per il quale è scientificamente provato il nesso con l’esposizione al cloruro di vinile.
Restano però decine di operai ammalatisi in giovane età, nonostante non fumassero né bevessero. Chirico era uno di questi. Sognava di fare l’aviatore, passava il suo tempo libero nei suoi terreni curando alberi da frutto e ulivi. Durante le ore di lavoro doveva invece immergersi nelle autoclavi dopo avveniva la trasformazione della plastica. Buio, caldo ed enormi “croste velenose” da spaccare alla fine dei cicli produttivi. E se non erano quelle botti infernali a minarne la salute, ci pensavano le nevicate: cloruro libero nell’aria, respirato a pieni polmoni quando qualcosa andavo storto durante l’insaccaggio. “Oggi è nevicato”, così al rientro a casa raccontavano gli operai alle famiglie mostrando le tute imbiancate da quella polvere sottile. Rosangela è andata a bussare a tante porte per ricostruire il curriculum lavorativo e sanitario del padre: racconta di aver ottenuto solo promesse e mai le carte dalla Syndial, una delle aziende che oggi opera nel petrolchimico brindisino e che custodisce gli archivi della Montecatini.
Due decenni in cui la chimica aveva fatto cullare sogni di ricchezza a un territorio essenzialmente agricolo. Salvo presentare il conto, ambientale e non solo, a quarant’anni di distanza. Tra allarmi inascoltati, come gli studi del professor Pier Luigi Viola: “Nel novembre del 1969, durante il Congresso Internazionale della Medicina del Lavoro di Tokyo, Viola rivela i suoi studi condotti sui ratti esposti al CVM; ne descrive gli effetti mortali e a tutto il suo uditorio, che comprende il gotha delle industrie petrolchimiche mondiali, consiglia caldamente di ridurre i tempi di esposizione degli operai addetti alle autoclavi. Il mio pensiero corre immediatamente a Chirico Donato matricola 229856, che nelle autoclavi lavora sia pur saltuariamente da sei anni, da quando è stato assunto nel 1963”, denuncia la figlia.
E’ una ricerca silenziosa, una composta rivendicazione civile di verità. Mai urlata, nonostante la giustizia non abbia fatto luce fino in fondo e la Chirico si chieda ancora oggi se i reparti, i luoghi di lavoro sono tutti a norma. “Per tutti quelli che, come me, hanno bisogno di conoscere la verità, questo non è un argomento chiuso. È per quei morti che bisogna vigilare sulle condizioni presenti negli ambienti di lavoro – scrive – Il passato va custodito per attivare il rispetto della vita, anche per gli operai morti per lavorare”. Tra inchiesta e intimi flashback famigliari, tratteggiando anche come l’industria pesante abbia stravolto paesaggi ed economia di una provincia dormiente alla periferia del Mezzogiorno, Chirico compie un viaggio che è simbolicamente di chiunque dovesse indagare la storia opaca di quegli anni. Un lungo tragitto che si chiude con il ritorno fisico ai cancelli dell’impianto in età adulta. “Le tute operaie mi sono apparse come sudari mistici di quel petrolchimico che un tempo avevo immaginato una fabbrica di dolciumi”, dove, accusa, “petrolio e plastica erano venduti al costo della vita umana” e “il pane è condito con la morte”.