Nel secondo trimestre del 2015, la crescita dell’economia cinese è rimasta stabile al 7 per cento, in linea sia con i risultati dei precedenti tre mesi sia con gli auspici del governo di Pechino per l’anno in corso e leggermente meglio rispetto alle previsioni degli analisti, che ipotizzavano un 6,9. I dati sono dell’Ufficio Nazionale di Statistica e diversi osservatori stranieri hanno espresso dubbi sulla loro attendibilità, come di consueto quando si tratta di cifre ufficiali. Il sospetto è che Pechino usi il metodo delle profezia che si auto-avvera: fissa un livello di crescita e poi fa in modo che i dati vi si adeguino.

A volte è però lo stesso governo centrale che annaspa nell’indeterminatezza dei numeri. A raccoglierli, a livello locale, sono infatti spesso i funzionari la cui carriera dipende dai dati stessi. Quindi anche a Pechino non sanno bene quanto siano affidabili. La complessità – o complicatezza – è aumentata dal fatto che non sempre i funzionari “la sparano grossa” per fare bella figura, come acutamente osserva Yukon Huang, ex direttore della Banca Mondiale per l’Asia Orientale. Talvolta giocano invece al ribasso, per intercettare qualche pacchetto di stimoli o per non creare eccessive aspettative. Insomma, le variabili sono infinite.

Con questa premessa, il premier Li Keqiang – che nella divisione dei ruoli al vertice è quello che si occupa di economia – aveva già preannunciato sul finire della scorsa settimana che l’economia cinese avrebbe mantenuto condizioni “ragionevoli” e stabili in termini di crescita, occupazione e prezzi al consumo.

L’annuncio che la crescita si attesta comunque al 7 per cento dovrebbe infondere ottimismo. Va ricordato che lo stesso livello è l’obiettivo indicato dal governo per tutto il 2015. Si tratterebbe dell’incremento minore degli ultimi 25 anni, ma Pechino l’ha inquadrato nel concetto di “nuovo normale” (xin changtai): crescita meno quantitativa e più qualitativa, intendendo con questo l’abbandono dello sviluppo export-oriented pompato dagli investimenti pubblici e una virata sui consumi interni di alta gamma come nuovo traino dell’economia.

I nuovi dati indicano proprio una ripresa delle vendite al consumo – più 10,6 per cento – che smentisce le previsioni. Va detto che anche il China Beige Book, ricerca indipendente, segnala una ripresa trainata soprattutto dalla crescita nelle province dell’interno. Musica per le orecchie della leadership, che punta proprio sull’estensione del benessere a occidente delle province costiere orientali per normalizzare le molteplici tensioni che percorrono il Paese. Benino anche la produzione industriale, indice tenuto particolarmente d’occhio, che raggiunge il livello più alto degli ultimi cinque mesi: 6,8 per cento.

Ciò nonostante, si prevede comunque un ulteriore stimolo del governo, visto che il trimestre si è chiuso con il crollo del mercato azionario, a confermare il fatto che il 2015 è un anno difficile per la seconda economia del mondo. La Cina sta vivendo pressioni deflazionistiche, un rallentamento del commercio, degli investimenti e della domanda interna, mentre il settore immobiliare si è raffreddato. A questo si aggiungono le recenti vicende borsistiche.

Julian Evans-Pritchard, economista di Capital Economics (Singapore) sostiene che la crescita reale dovrebbe essere di uno o due punti percentuali inferiori a quanto dicono i dati ufficiali, ma concorda sul fatto che l’economia si stia riprendendo: “Uno dei motivi è che il forte incremento delle attività di intermediazione associate alla bolla azionaria alimenta direttamente il settore dei servizi come componente del Pil”, ha detto al South China Morning Post di Hong Kong. Va ora capito come la recente volatilità delle borse si rifletta su questo fenomeno. Ma lo vedremo probabilmente allo scadere del prossimo trimestre.

di Gabriele Battaglia

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