Stiamo messi bene, anzi malissimo. Da cinque anni in Italia non si conta un suicidio per motivi economici che sia uno. La spia più tragica della crisi si è definitivamente spenta? Sarebbe una gran bella notizia, se non fosse smentita dalle evidenze della cronaca che, con frequenza quotidiana, testimonia quanti italiani arrivano a togliersi la vita per il lavoro perso, lo sfratto subito, la misera pensione o perché legati al cappio dei creditori. Come è possibile?
Il fatto è che, perfino sui morti, ci sono non una ma due Italie. E quella che conta, di punto in bianco, ha smesso di contare. Dal 2012 l’Istat, l’ente che fa la statistica ufficiale del Paese, non pubblica più il conteggio annuale dei suicidi economici. L’ultimo dato disponibile è fermo al 2010, con 187 casi tragicamente conclusi e 245 tentati. I motivi della decisione sono discussi e discutibili, ma il punto è che da altre fonti di ricerca i dati arrivano e sono allarmanti: 121 vittime nei primi sei mesi dell’anno, il semestre di gran lunga peggiore dal 2012. A rilevarli è l’Osservatorio sui suicidi diretto dal sociologo Nicola Ferrigni dell’Università Link Campus di Roma che – a differenza dell’Istat – non ha mai smesso di contare le sue croci.
Stando all’aggiornamento semestrale del rapporto (scarica) il numero dei suicidi sarebbe doppio rispetto a 3 anni fa, con un escalation delle tragedie soprattutto nel Mezzogiorno e nel Nord-Est, un aumento dei casi tra gli imprenditori, l’abbassamento dell’età media, la crescita dei tentati suicidi di quasi il 50% rispetto al stesso periodo 2014. Salgono così complessivamente a 560 i suicidi (e 320 i tentati suicidi) registrati in Italia per motivazioni economiche dall’inizio del 2012 a giugno del 2015. Un piccolo comune tra i tanti che si spegne, nel silenzio (statistico) generale. Va detto il protocollo di classificazione impiegato da Ferrigni è stato criticato in ambienti accademici. Il docente ha difeso il metodo di rilevazione delle sue ricerche in un video (guarda). Il cuore della questione però è un altro.
Perché lo Stato, all’improvviso, smette di contare gli schiantati dalla crisi? La risposta, che sembrerebbe semplice, non lo è. Lo stesso professor Ferrigni non sa trovare un argomento convincente. “Me lo chiedono in tanti, ma non trovo una ragione plausibile. Istat in questo campo era l’unico serbatoio dei dati ufficiali in quanto provenienti da fonte giudiziaria. Noi invece, per forza di cose, siamo costretti a impiegare una metodologia indiretta ed empirica che prevede la sistematica raccolta di notizie attraverso gli organi di informazione e il successivo controllo con le autorità di polizia, l’autore dell’articolo di stampa locale o il sindaco. Un lavoro di verifica il più scrupoloso possibile che ci porta a escludere per prudenza tutti i casi dubbi, tanto da farmi temere che il dato reale sia ben più tragico di quello che infine pubblichiamo”.
Istat, dunque, perché non parli? In realtà risponde l’Ufficio stampa dell’ente. “E’ vero, dal 2010 non rileviamo e pubblichiamo i dati sui suicidi e sulle cause. Ma dietro questa scelta non c’è alcun intento di oscurare o minimizzare il fenomeno”. La scelta di interrompere la serie, come spiega una nota dell’ente del 2012, sarebbe legata alla difficoltà di attribuire una causa univoca a ciascuno dei casi. La rilevazione proveniva dai dati accertati dalla Polizia di Stato, dall’Arma dei Carabinieri e dalla Guardia di Finanza in base alle notizie contenute nella scheda individuale di denuncia di suicidio o tentativo di suicidio trasmesso all’atto della comunicazione all’Autorità giudiziaria. “Ma l’attribuzione della causa di decesso risultava spesso inattendibile e il rischio di sovrastima o sottostima era ritenuto troppo alto”. Così nel 2012 i vertici Istat hanno deciso di non usare più la fonte giudiziaria ma quella ospedaliera, e di non elaborare più la serie sulle cause di morte. “Anche perché è capitato, purtroppo, che i risultati delle statistiche venissero utilizzati in modo strumentale”.
E qui, forse, sta il punto delicato dell’intera faccenda. Dell’improvviso silenzio calato sui suicidi economici si potrebbe anche dare una lettura meno benevola. Con non poco cinismo la si potrebbe chiamare “operazione allegria”. Non può sfuggire, infatti, in quale clima politico e sociale sia maturata la decisione dei vertici dell’istituto. Se non bastano i titoli dei giornali di allora (“Crisi, in Italia è record di suicidi”, “Nord-Est, gli imprenditori si uccidono”…) è sufficiente una foto: quella del corteo del 4 maggio 2012, quando le vedove di 70 imprenditori che si erano tolti la vita dall’inizio dell’anno hanno sfilato a Bologna per manifestare la loro rabbia e il loro dolore.
Non si sa se ha prevalso allora la logica dello Stato-tutore che spegne le statistiche per evitare la spirale delle emulazioni, la caduta delle difese collettive, il sensazionalismo imperante dei giornali. Oppure quella del governo (che nomina i vertici di Istat) allora additato, magari a torto, come responsabile unico di tutte le tragedie. Fatto sta che da allora certe morti fanno solo notizia e non più statistica. E l’allarme sul fenomeno, come per magia, è scomparso.