Passo della Futa – “Io, feto adulto, mi accingo a cercare fratelli che non sono più”. Pasolini è ancora moderno, è ancora presente, è ancora tra noi. Paradossalmente più oggi di allora. Quarant’anni non sono passati invano, hanno fatto un solco, hanno ampliato la forbice, hanno segnato il confine tra la riflessione e la superficie. Siamo tutti pasoliniani. Anche chi pensa di non esserlo, anche chi non lo ha mai sentito nominare. Essere “pasoliniani” è un moto, uno sdegno, un’imprecazione, un’invocazione, un urlo al cielo con la forza della ragione, un rimettere a posto i cocci del pensiero, un fermarsi nella foll(i)a e cambiare direzione, con calma e fermezza, senza sentirsi dalla parte del giusto ad ogni costo, ma con la convinzione di stare esercitando pressione sulla realtà perché prenda coscienza di se stessa.
È tra le pietre scure di questa vallata dedicata alle brutture dell’uomo contro se stesso che i suoni friulani trasportati tra l’Appia e la Tuscolana trovano finalmente non tanto una pace ma quanto un appoggio concreto, una sponda dove spingersi. Quale luogo migliore di un cimitero per raccontare Pasolini, quale luogo migliore di un cimitero germanico in questi anni di crisi europea con i teutonici leader che tengono al guinzaglio ellenici e latini, quale luogo migliore di un cimitero dove sono sepolti i resti di decine di migliaia di giovani mandati a combattere per una guerra non loro. A cento anni dalla Grande Guerra, a quaranta dalla scomparsa di uno dei nostri poeti. Numeri freddi per viscere roventi.
In questo lembo che si erge a bandiera, che si fa sempre pennone e sperone alto come punto focale in mezzo alla collina del Passo della Futa, tra le basse tombe bianche squadrate, gli Archivio Zeta hanno, da oltre dieci anni, affinato la loro tecnica, la loro poetica di canto itinerante lassù dove il vento si porta via le parole, antiche, arcaiche, millenarie della tragedia greca che, immersa in questa modernità di lacrime e morte, riesce a tornare viva, a parlarci nuovamente. Il mito non è, qui, soltanto di carta e inchiostro, di leggende tramandate, ma diventa tangibile, ha un’anima, una voce, una carne ferita che si lamenta e cerca riparo.
Stavolta Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti (anche due dei loro tre figli piccoli in scena) creano un potente armamentario di visioni e spezzano il Pilade pasoliniano in quattro mosse, con altrettanti climax e focus, ognuno autonomo e ognuno parte e riverbero degli altri percorsi. Da Marzabotto ad aprile, ricordando l’eccidio, a luglio nelle Saline all’interno di Volterra Teatro con gli operai licenziati, ad agosto alla Futa, insieme ai soldati uccisi nella Seconda Guerra Mondiale, a settembre a Bologna con alcune decine di migranti, per poi confluire, sempre a Bologna, a novembre, per il quarantennale dell’uccisione del poeta di Casarsa della Delizia.
Prima volta che la tecnologia entra dentro i lavori, molto manuali e artigianali, degli AZ. Le cuffie, che in un primo momento sembrano portare verso un mondo troppo distante da quel contesto rurale e campestre, di erba bruciata e alberi solitari in mezzo a questa spianata strage di ossa giovani, poi però rendono la distanza, geografica e temporale, epocale semmai, aumentano la potenza della parola che pare arrivare direttamente da un’altra dimensione. Come un mantra martellano e si sovrappongono le voci, sale il rombo, il tuono, l’onda. Girano in tondo come lancette rotte, come un giogo, mai gioco, come una lancia per trafiggere, come un giavellotto per raggiungere, come meridiano da indicare. Qui tutto rimane immutabile, sospeso nel tempo della riflessione e della meditazione che comunque, all’uomo, non porta consiglio. La voce di Pasolini stesso (come lo scorso anno quella di Luca Ronconi) è calda e ancora illuminante, abbagliante nel suo pensiero così lucido e così lampante sulla nostra “innocenza colpevole”.
Stiamo come si sta a guardare con ansia e attesa la bellezza di un tramonto o quella dell’alba, alla ricerca di un’epifania di croci di pietra e ombre in un viaggio ai confini, alle origini dell’uomo, dove non ci sono né vinti né vincitori, dove l’aria Lascia che io pianga sa di protesta – installazione umana immobile come di rarefatta rassegnazione, mentre la ragione consolatrice benedice soltanto i primi della lista. L’ottimismo è l’arma che usano i vincitori per ingannare il popolo e infarcirlo del sudore-dolore necessario per agguantare un altro domani.
Visto al Cimitero Germanico Monumentale della Futa, Firenzuola, l’11 agosto 2015