Brutto incidente o (molto) peggio? Dopo il crollo dei listini di lunedì partito dall’Asia e allargatosi a tutto il mondo ci sono due narrazioni degli eventi che si accavallano. La prima, tutto sommato rassicurante, riconduce tutto o quasi alla situazione cinese e a quella che pare essere una incapacità della banca centrale e delle autorità di Pechino di fare fronte all’emergenza in maniera adeguata. La seconda, molto più inquietante, sposta di molto il tiro. Il problema non sarebbe tanto la Cina, alla fine più vittima che colpevole. Quello che inizierebbe invece a prendere corpo è la consapevolezza dei danni collaterali provocati dalle politiche ultraespansive delle grandi banche centrali a fronte di effetti precari ed insufficienti sulla crescita economica.

Partiamo dalla prima ipotesi. Che la borsa cinese fosse destinata a perdere ancora terreno non era un mistero. L’indice rimane ancora sopra ai valori di un anno fa di oltre il 40% e molte azioni appaiono sopravvalutate, soprattutto alla luce di un rallentamento dell’economia reale più marcato di quanto atteso. I cali delle scorse settimane erano stati arginati in modo artificiale, sospendendo temporaneamente dalle contrattazioni il 90% delle società, bloccando le nuove quotazioni, riducendo i tassi e pompando liquidità verso le imprese più rappresentative. Non poteva durare e non è durato. La miccia del disastro di lunedì si accende però negli Stati Uniti quando venerdì scorso Wall Street chiude in calo del 3,2%, la peggior seduta dal 2011. Lunedì la palla passa ai mercati asiatici. Tutti si attendono una nuova mossa della banca centrale cinese a difesa dei listini coerentemente con i messaggi e le mosse delle scorse settimane. L’intervento però non arriva. A torto o a ragione si diffonde la sensazione che a Pechino non sappiano più che pesci pigliare e stiano via via perdendo il controllo della situazione. Di fronte a questa prospettiva si scatena il panico e la seduta si chiude con flessioni vicine al 10%.

In questo clima aprono le borse europee e, tra scambi record, la musica non cambia. In prima fila a prendere sberle ci sono i titoli più direttamente esposti alla crisi cinese. Ci sono quindi le società del lusso, che devono molti dei loro ricavi alle vendite in Cina. Ad esempio Swatch che dal mercato cinese ottiene il 49% dei suoi introiti o Ferragamo che arriva al 38%. Gucci, Hermès, Burberry, Prada hanno tutti quote di incassi riconducibili alla Cina superiori al 30% mentre Tod’s e Louis Vuitton si fermano al 26%. Vanno malissimo anche le compagnie petrolifere. Se la Cina frena diminuiscono le sue importazioni di greggio, in una fase in cui l’offerta supera già abbondantemente la domanda spingendo i prezzi verso il basso. Un guaio non solo per le imprese del settore ma anche per tutti quei paesi che dall’esportazione di greggio e di altre materie prime ottengono introiti significativi. Australia e Brasile sono ad esempio due dei produttori molto legati alla domanda cinese ma il calo delle quotazioni si ripercuote indirettamente su tutti i grandi esportatori di commodities, le materie prime. Spesso si tratta per di più di paesi già in difficoltà a causa del deflusso di capitali innescato dalla prospettiva di un rialzo dei tassi Usa. Materie prime meno care significano anche meno “petro-dollari” a disposizione di chi le vende che in passato li utilizzava per comprare asset finanziari soprattutto statunitensi . E vuol dire anche nuove pressioni al ribasso sui prezzi al consumo proprio mentre la Bce fa di tutto per allontanare lo spettro della deflazione.

I canali di possibile contagio di una crisi cinese al resto del mondo come si vede sono molteplici. Ma le preoccupazioni sono in parte premature e difficilmente possono da sole giustificare la portata del crollo di lunedì. In fondo che la Cina stia rallentando non è certo una novità e i paesi dell’area asiatica sono oggi più solidi e attrezzati per fronteggiare una crisi sul modello di quella che li colpì nel 1997. Eppure le borse hanno registrato flessioni che si erano viste nei giorni più bui della crisi del 2008. L’indice VIX, detto anche “indice della paura”, che misura la volatilità dei mercati (in pratica un indicatore del nervosismo che si respira nelle sale operative) ha raggiunto un valore che non si vedeva dal 2009. Perché una reazione così violenta e così globale?

Ecco allora farsi strada una interpretazione più preoccupante che va al di là del caso Cina e sposta la prospettiva su un piano globale. I mercati starebbero in qualche modo testando le residue capacità delle banche centrali di fronte alla prospettiva di una recessione globale, che per ora non c’è ma che la frenata cinese rende più verosimile. Cos’altro possono fare Janet Yellen, Mario Draghi e colleghi? Con i tassi d’interesse a zero e massicce immissioni di moneta in corso o appena concluse quali carte possono ancora giocare? E’ molto difficile stabilire quali siano i margini residui di manovra delle banche centrali. Quella al momento più “tirata” è la banca centrale svizzera con ha già acquistato asset per un valore pari quasi al 100% del Pil nazionale. Bce, Fed e Bank of England che si fermano al 30% sarebbero meno in difficoltà. La banca centrale cinese sta nel mezzo, al 60%. Il problema è un altro e riguarda la credibilità degli interventi. Una banca centrale può comprare tutto quello che vuole ma se ci si rende conto che questo da solo non basta la sua azione servirà a poco o sarà addirittura controproducente.

Alberto Gallo che coordina la ricerca macro di Royal Bank of Scotland scrive ad esempio nel suo periodico The Silver Bullet: “Il re è nudo (…). Pensiamo che il Quantitative easing sia stato una scelta necessaria e opportuna ma insufficiente per la ripresa. Ora ci si sta rendendo conto che le armi dei banchieri centrali sono spuntate e i mercati non hanno al momento nient’altro in cui credere. La ripresa è legata all’eccesso di liquidità mentre gli investimenti sono ancora carenti e gli aggiustamenti fiscali poco credibili. Il risultato è un aumento esagerato dei prezzi degli asset finanziari a fronte di una crescita dell’economia reale non sostenibile”. Semplificando: con il denaro a costo zero conviene investire sui mercati piuttosto che avviare nuove attività produttive. Se non accompagnati da interventi di altra natura (leggi stimoli fiscali) per favorire una vera ripresa dell’economia reale i danni delle politiche ultra espansive possono alla fine superare i vantaggi e innescare un circolo vizioso da cui diventa molto difficile uscire. Una bassa crescita chiama le banche centrali a nuovi interventi che però, da soli, finiscono per “minare” ulteriormente la crescita.

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