Il colpevole si chiama Wang Xiaolu. E’ lui che ha fatto crollare a più riprese le borse asiatiche, trascinando giù lunedì scorso anche tutti i listini occidentali. Non il rallentamento dell’economia cinese, il timore che la transizione da un modello di crescita basato su investimenti ed esportazioni a uno centrato sui consumi interni fallisca e l’incapacità di Pechino di mettere in campo contromisure adeguate. Né i dubbi sull’efficacia degli interventi delle banche centrali di Ue e Usa. Mentre il premier Li Keqiang continua a ostentare ottimismo sulle magnifiche sorti del miracolo economico cinese, il governo della Repubblica popolare ha trovato il suo capro espiatorio: Xiaolu, giornalista per il magazine Caijing. L’unico mezzo di informazione del Paese ad aver dato notizia delle turbolenze sui mercati mentre Il quotidiano del popolo, voce ufficiale del Partito comunista, preferiva dar spazio ai preparativi per la parata del 3 settembre e allo sviluppo del Tibet.
Gogna pubblica mirata ovviamente a corroborare la versione ufficiale: l’evaporazione dei guadagni di 90 milioni di piccoli risparmiatori, convinti dal governo a investire in azioni per contribuire allo sviluppo del mercato, è colpa del reporter “irresponsabile” e di poche altre mele marce. L’agenzia Nuova Cina ha annunciato che quasi 200 tra manager e operatori finanziari sono stati “puniti dalle autorità” per aver diffuso sul web informazioni che avrebbero determinato il crollo del 40% delle quotazioni di borsa da metà giugno a oggi. Oltre a Wang, nel mirino sono finiti Xu Gang, direttore della maggiore banca di investimento del Paese Citic Securities, accusato insieme ad altri manager dell’istituto di insider trading, e alcuni Ouyang Jiansheng, ex-dirigente della China Securities Regulatory Commission (omologo della Consob), e Liu Shufan, capo divisione dello stesso ente. Anche Shufan ha confessato in diretta tv, raccontando di aver sfruttato notizie riservate per arricchirsi con la compravendita di azioni.
Peccato che la propaganda strida con gli interventi avviati nel frattempo dalla Banca centrale cinese e con il fatto che il governo stesso, insieme ad agenzie pubbliche e banche controllate dallo Stato, è intervenuto sul mercato comprando azioni per arginare i ribassi. Che dunque evidentemente non erano solo frutto di notizie tendenziose. Sullo sfondo restano poi i dubbi sull’attendibilità dei dati ufficiali diffusi dall’Ufficio nazionale di statistica: l’Economist si spinge ormai a scrivere che “la rivendicazione del governo che l’economia procede al ritmo del 7%, mai del tutto credibile, oggi suscita derisione“.
L’arresto di Wang, riporta il Financial Times, è stato condannato dal Comitato statunitense per la protezione dei giornalisti. Secondo David Bandurski, ricercatore dell’università di Hong Kong e coordinatore del China media project, la sua detenzione “non è legata alla natura del suo articolo, ma al suo impatto politico. Appare come una vendetta”. La punizione per non aver rispettato le direttive diffuse a giugno, quando sono cominciate le turbolenze sui mercati: ai mezzi di informazione era stato chiesto di “non condurre analisi approfondite e non speculare sulla direzione del mercato”, “non esagerare il panico o la tristezza” e “non usare parole con connotazione emotiva come “crollo“, “impennata” o “collasso“.