“Questa è una bussola che mi hanno appena portato, recuperata su un barcone di profughi. E queste sono delle fotografie di donne, chissà forse le sorelle di qualche migrante che se n’è andato nel nostro Mediterraneo”. Giacomo Sferlazzo ha due braccia da pescatore e l’aria di un pirata ma prende in mano quelle reliquie del mare come se fossero oggetti sacri. Anzi, per lui e per tutti quelli del collettivo Askavusa, che hanno creato il museo della migrazione a Lampedusa, lo sono.

Il compito che si son dati questi lampedusani è mantenere la memoria viva. “Se noi non avessimo salvato questi oggetti, tra dieci, vent’anni si dimenticherebbe tutto di questa tragedia”, spiega Giacomo seduto su un asse di legno nello spazio PortoM, un garage per imbarcazioni che s’affaccia sul mare trasformato in un’esposizione permanente e un luogo di riflessione. Dalla terrazza di questo singolare museo, Giacomo e gli altri vedono arrivare ogni giorno gli sbarchi sul molo Favarolo e osservano le motovedette della Guardia costiera partire verso le rotte della disperazione.

Giacomo raccoglie giorno per giorno centinaia di oggetti che trova sulle spiagge e nel cimitero delle barche dei migranti nel vecchio porto dell’isola. Quelle scarpe e quei sandali consumati, quei biberon vuoti, quei salvagenti appesi al muro e quei Corani inzuppati d’acqua sono l’urlo quotidiano che Askavusa lancia all’Italia intera e all’Europa. In quei pochi metri quadrati dello spazio espositivo c’è la storia della migrazione: “Noi lavoriamo a questo progetto dal 2009. In quegli anni frequentavo le discariche, quando hanno cominciato a mettere le barche lì. Una volta ho trovato delle lettere e delle fotografie. E’ in quel momento – ha detto – che abbiamo cominciato a raccogliere questi oggetti dei migranti”.

Sugli scaffali di PortoM, trovi le schede telefoniche da cinque euro, bicchieri di plastica, pacchetti di sigarette con la scritta in arabo, bottiglie d’acqua conservate in sporte fatte a mano, confezioni di medicinali introvabili in Europa. E poi qualche barattolo di pomodoro, buste di caffè, lattine di Coca Cola comprate in Libia o forse in Algeria, in Tunisia. E’ il viatico di questa gente. “In quest’ultimi tempi – spiega Giacomo, che ha fatto tutto ciò senza il sostegno delle istituzioni – abbiamo raccolto anche centinaia di numeri di telefono, di indirizzi mail scritti in quaderni di fortuna o dietro le fotografie dei parenti. Vorremmo tentare di raggiungere queste persone per capire cos’è successo, per ricongiungere delle storie disperse”.

Sferlazzo e i suoi hanno conosciuto l’operazione Mare Nostrum e seguono attimo per attimo ciò che accade ora nel Mediterraneo. Sanno quando stanno per sbarcare nuovi migranti. Sono i pirati “buoni” dell’isola che non hanno peli sulla lingua: “Ci sono due narrazioni dell’immigrazione. Una vede queste persone come il nemico. L’altra è una narrazione del migrante come un povero animale che va protetto, aiutato. In entrambi i casi nessuno permette a queste persone di parlare. Il migrante è una categoria creata per meglio manovrare la gestione. Ad esempio, se parli con un tunisino e un eritreo sono mondi opposti”. Ne sono testimonianza quelle Bibbie e quei Corani ripescati negli stessi barconi: liturgie dei sommersi del Mediterraneo.

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