Una voce inconfondibile, un look che ancora oggi fa tendenza e quell’istinto autodistruttivo che la accomuna ad alcuni dei più grandi artisti di tutti i tempi. A quattro anni dalla sua prematura scomparsa Amy Winehouse, che il 14 settembre avrebbe compiuto 32 anni, torna a straziarci il cuore con la sua musica e una straordinaria vitalità nel bel documentario che il regista britannico Asif Kapadia (‘Senna’) ha deciso di dedicarle. Amy – The Girl Behind the Name nelle sale italiane per soli tre giorni, il 15, il 16 e il 17 di settembre distribuito da Nexo e Good Film. Non sembra aver particolarmente gradito Mitch Winehouse, il padre della regina del soul, che ha imputato al filmmaker e ai suoi collaboratori la volontà di farlo apparire come un padre assente. In occasione della premiere al Festival di Cannes, il regista Asif Kapadia ha difeso le proprie scelte artistiche e rivendicato l’onestà con cui ha scelto di raccontare la dimensione pubblica e privata della vita della popstar.
Che differenza c’è tra girare un documentario su una persona che ha così a cuore la propria vita e quella degli altri come Ayrton Senna e una completamente autodistruttiva come Amy Winehouse?
Spero che dal documentario non si deduca che Amy volesse morire. Tra i due ci sono delle grandi differenze. Ayrton era un uomo che aveva un background rassicurante. Era un supereroe, una persona inconsueta, maniaca del controllo. Amy mi ha colpito perché era una ragazza ordinaria dotata di un talento straordinario.
Li accomuna solamente il tragico epilogo delle loro esistenze?
Ayrton era un uomo molto religioso ed è morto a causa di un incidente che non è dipeso da lui ma forse dal Dio in cui credeva. Amy non lo era affatto. La musica era l’unico mezzo che conosceva per colmare i suoi vuoti esistenziali. Il film vuole raccontare la storia di una giovane donna tradita, giudicata e aggredita per qualsiasi futile motivo, dai capelli al trucco, da come cammina a quanto pesa.
I media che ruolo hanno svolto in tutto questo?
E’ stato interessante notare il diverso trattamento che è stato riservato a queste due personalità. Tutti credevano che fosse legittimo criticare Amy mentre io credo che a 21 anni sei ancora una bambina e commetti degli errori così come il resto del mondo a quell’età.
Nel documentario vengono mostrati moltissimi filmati inediti della Winehouse. Come li hai selezionati? Ti sei posto dei limiti per proteggere la sua dignità?
Il mio obiettivo era evitare di essere ripetitivo e mettere quei filmati al servizio della narrazione della sua storia. Avevo circa sette ore di riprese che ho dovuto tagliare fino ad ottenere un film di poco più di due ore. Il mio documentario è la diretta espressione di tutto ciò che le persone che ho intervistato mi hanno raccontato di Amy.
Come sei riuscito ad ottenere la fiducia delle persone che sono intervenute?
Il primo che contattai fu il suo primo manager che accettò l’intervista solo perché era un ammiratore del mio documentario su Senna. Mi disse proprio che guardando il mio film aveva pensato che sarei stato il regista perfetto per un documentario su Amy. All’inizio credeva che fosse un po’ presto per farlo e troppo doloroso per i suoi cari poi ha accettato di incontrarmi e siamo diventati grandi amici. Tramite lui sono riuscito ad entrare in contatto con gli amici e i parenti di Amy.
E com’è andata con loro?
Erano tutti estremamente arrabbiati e addolorati per la morte di Amy. Volevano contribuire ma non riuscivano neanche a parlare. A mano a mano hanno cominciato a fidarsi, a parlare tra loro di me e hanno deciso che avrebbero potuto darmi questa chance. La loro preoccupazione iniziale era che io volessi sfruttare Amy come avevano fatto tanti altri, poi hanno capito che il mio scopo era solo quello di raccontare chi fosse veramente e che cosa significasse essere lei.
Perché credi che il padre di Amy si sia arrabbiato?
Le interviste sono state tutte molto amichevoli. Ho parlato con chiunque avesse mai avuto un ruolo nella sua vita. Sono stati tutti generosi, non ci sono stati fraintendimenti, nessuno di loro è rimasto male per qualcosa e hanno tutti firmato la liberatoria. Il mio film è un’onesta rappresentazione di ciò che mi hanno detto. A me importava solo Amy. Il film è su di lei e nessun altro.
Che cosa ti ha sorpreso di più ascoltando i suoi amici e i suoi parenti?
Mi è sembrato che Amy cercasse di rendere felici tutti, la sua famiglia, i suoi amici. Deve essere stato estenuante per lei. Tutti erano convinti di essere suoi migliori amici. La sua vita è stata per me una rivelazione. Non sapevo neanche che i testi delle sue canzoni fossero così personali. Ho scoperto una ragazza molto simpatica e intelligente e una giovane artista di immenso talento.
Prima del documentario qual era il tuo rapporto con Amy?
Non sapevo nulla della sua vita, non ero un suo grande fan ma lo era mia moglie che mi ha convinto a fare il documentario. Io Amy non l’ho mai incontrata. Non sono un grande intenditore di musica ma mi sono consultato con degli addetti ai lavori che mi hanno erudito su quanto di straordinario ci fosse in lei e nella sua voce.
Oggi ci commuoviamo guardando i video di repertorio ma in quegli anni eravamo tutti pronti a giudicare e a ridere di lei e delle sue cadute… Siamo tutti un po’ responsabili della sua morte?
Assolutamente, è ciò che avevo intenzione di mostrare nel film. Ho incontrato persone che andavano a dei party di Halloween vestiti da Amy Winehouse. Crede che sia normale? Ecco perché credevo fosse importante fare un film su di lei oggi e non tra dieci anni perché tramite lei capiamo chi siamo.
Che cosa ne pensi della tradizione del Club 27?
Credo che sia profondamente stupido. Come si può mai pensare di celebrare la morte?