Le parole pronunciate, lunedì sera, dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nell’ultimo minuto di “Otto e mezzo”- la trasmissione de La 7, condotta da Lilli Gruber – hanno riacceso il dibattito, ormai antico, sull’opportunità di chiamare i big di Internet a pagare più tasse nel nostro Paese.
Nelle ultime 24 ore, infatti – in rete e fuori dalla rete – si moltiplicano ipotesi, congetture, teorie e pseudo certezze sul significato da attribuire alle parole del capo del Governo e sulle sue reali intenzioni.
Prima di aggiungere altra “carne” su un fuoco già rovente, vale però, la pena di ricordare i fatti per scongiurare il rischio che si finisca con l’attribuire al Governo idee e progetti che, probabilmente, allo stato non esistono o, almeno non sono maturi, alimentando inutile confusione in una materia straordinariamente delicata nella quale, peraltro, il dialogo e la diplomazia internazionale ha – ed è giusto che abbia – un ruolo centrale.
In questa prospettiva val la pena, innanzitutto, ricordare che il premier non si è seduto davanti a Lilli Gruber con l’idea di annunciare la digital tax ma ha semplicemente risposto, in senso affermativo, ad un intervento di Federico Rampini che lo ha invitato a considerare – anche in considerazione del “ruolo” del nostro capo del Governo “a Bruxelles, nel G7 e nel G20” – la necessità di “un’azione concertata contro l’elusione fiscale delle multinazionali” come Apple e Google negli Usa e la Fiat in Italia.
E’ a questo punto – quando mancavano meno di tre minuti alla fine della trasmissione – che Renzi, stralciata la posizione della Fiat, dichiarando che “Sergio Marchionnne meriterebbe un monumento”, ha fatto l’annuncio che ha gettato in fibrillazione il web: “Abbiamo deciso di attendere tutto il primo semestre del 2016 l’Ue, ma da questa legge di stabilità già immaginiamo una digital tax che vada a far pagare le tasse nei luoghi dove vengono fatte le transazioni e gli accordi”.
E il presidente del Consiglio ha poi aggiunto altri tre riferimenti da non sottovalutare.
Uno: “Stiamo pensando a meccanismi diversi da quelli ipotizzati in passato”. Due: “non è una manovra che porterà tutti i soldi a cui pensa Rampini o con la quale risollevare le finanze del Paese”. Tre: “non lo facciamo per raccogliere soldi ma per una questione di giustizia sociale”.
Sin qui i fatti, ai quali è solo il caso di aggiungere che il tutto si è esaurito in 58 secondi netti, neppure un minuto. Guai, naturalmente, a svilire la portata di annuncio fatto in diretta TV ma, ad un tempo, attenzione a voler tradurre, ad ogni costo, una manciata di parole, in un disegno di legge di Governo. A voler, comunque, seguire l’onda lunga dei tanti che hanno ritenuto di leggere dietro alle parole del premier più di quanto abbia detto, c’è comunque una certezza ed alcune forti probabilità che vanno tenute in considerazione.
La certezza è che il governo non sembra avere alcun ripensamento sul “no”, secco, annunciato, via Twitter, dallo stesso premier, nel febbraio del 2014, alla c.d. “web tax” di Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio della Camera dei deputati.
A parte i macroscopici limiti tecnici della proposta di legge all’epoca bocciata da Palazzo Chigi, l’idea di un ripescaggio è evidentemente esclusa dalla circostanza che Renzi abbia avvertito l’esigenza di precisare che si pensa “a meccanismi diversi da quelli ipotizzati in passato”. Qualsiasi cosa sia – anche ammesso che abbia già dei contorni delineati e non si sia trattato “solo” dell’esternazione di una riflessione non ancora matura – quindi la “digital tax”, non sarà una riedizione della “web tax”.
Ma, a ben vedere – e se si vuole stare ai fatti e non correre più avanti delle parole nel grigio delle ipotesi e dei retro-pensieri – non c’è nessuna ragione neppure per ipotizzare che il Governo stia pensando di adottare il disegno di legge, già depositato alla Camera dei deputati, che ha come primi firmatari Stefano Quintarelli e Giulio Cesare Sottanelli, entrambi di Scelta civica, il cui testo – anticipato dai giornali – non è ancora disponibile sul sito della Camera.
Renzi infatti, ci ha tenuto a sottolineare che non si tratta di un’iniziativa che consentirà di incassare tanti soldi, ispirata più da ragioni di giustizia sociale che economica, mentre il disegno di legge in questione, ipotizzando un prelievo alla fonte – ovvero al momento del pagamento del corrispettivo del prodotto o servizio acquistato online – del 25%, sembrerebbe un’iniziativa che, a prescindere dalla sua sostenibilità sul piano della disciplina fiscale internazionale, farebbe affluire nelle casse dello Stato parecchio denaro.
E allora? Cosa hanno in mente a Palazzo Chigi? Difficile a dirsi, ammesso che sia necessario provare ad indovinare ciò che il capo del Governo non ha detto e, magari, neppure ha già pensato.
E’ però ipotizzabile – e si tratterebbe di una mossa politicamente astuta e difficilmente contestabile – che Renzi stia “semplicemente” meditando sull’ipotesi di assumere la leadership dei paesi che, nei prossimi mesi, si ritroveranno, necessariamente a dover ragionare su come dare attuazione alle linee guida, che l’Ocse sta per definire – ma che a Palazzo Chigi sono certamente già note – proprio in materia di disciplina della tassazione delle transazioni online. Le linee guida dell’Ocse, d’altra parte, rappresentano l’ineludibile perimetro nel quale dovrà collocarsi qualsiasi iniziativa in materia.
Se fosse così – e si tratterebbe di uno scenario confortante – come suggeriva ieri, in un tweet, Sergio Boccadutri, responsabile dell’area innovazione del Pd, più che di una vera e propria “digital tax”, si tratterebbe di un’iniziativa di contrasto all’elusione fiscale da parte dei giganti – e non solo – del web.
Non si tratta di tassare il digitale. Ma di porre un limite al profit shifting. Non chiamiamola #digitaltax
— Sergio Boccadutri (@boccadutri) 15 Settembre 2015
E’ difficile – per non dire impossibile – allo stato trarre conclusioni sicure sulle intenzioni del Governo, dalle poche parole pronunciate dal premier, mentre – ora che è noto, almeno, che il tema è nell’agenda prossima ventura di Palazzo Chigi – il momento è propizio per avanzare qualche auspicio.
Il primo è che, pur mossi da sacrosanti intenti di giustizia sociale, non ci si lasci prendere la mano, dimenticando che la prima vera scommessa di un Paese che voglia giocare e vincere la sua partita con il futuro, non è quella di far pagare più tasse a Apple, Google, Facebook e agli altri ma riuscire a creare le condizioni perché i colossi del web di oggi e, soprattutto, quelli di domani, scelgano, con convinzione, di mettere solide radici nel nostro Paese, investendo e creandovi posti di lavoro. La migliore delle tassazioni possibili – pure necessaria proprio per quelle ragioni di giustizia sociale ricordate dal premier – in questa prospettiva, non risolverebbe il problema.
Il secondo è che benché “digital tax” faccia rima con “Google tax”, mettere mano alla disciplina della materia, significa inesorabilmente assoggettare alle stesse regole piccoli e grandi imprese del digitale, quando vendono servizi e prodotti online in Italia e quando li esportano all’estero. Guai a dimenticarsene perché si rischia di veder uscire dalla porta ciò che si è fatto entrare dalla finestra.
Il terzo è che – ci piaccia o non ci piaccia e benché, inesorabilmente, renda tutto più lento e complicato – il mercato globale ha bisogno di regole sovrannazionali. Senza concertazione, diplomazia ed accordi internazionali si corre il rischio di inanellare un gran numero di vittorie di Pirro, utili forse a garantirsi qualche titolo sui giornali ed a far cassa per l’inverno prossimo venturo ma del tutto inutili a garantire un futuro al Paese.