Tutto si può dire tranne che Ligabue non ci tenga a festeggiare i venticinque anni dal suo esordio. Proprio per l’occasione, infatti, il cantautore di Correggio ha deciso di invitare gli amici nel salotto di famiglia, in altre parole di mettere su un nuovo Campovolo. Già il fatto che il nome di una location significhi un evento ben preciso la dice lunga riguardo quanto il Liga si sia dedicato ai live, con particolare attenzione per i megaeventi. Sul fatto che chi ha deciso di mettersi in moto da ore, in alcuni casi anche da giorni, per assistere a un concerto di tre ore e mezzo sia un fan, non un semplice spettatore, invece, non c’è bisogno di fare commenti.
Così, dopo code in autostrada che erano iniziate sin dalla prima mattina, e che sono proseguite praticamente fin quasi la fine del concerto, con spettatori muniti di biglietto rimasti incolonnati mentre andava in scena quello che a oggi è stato il più lungo concerto eseguito dall’autore di Certe notti, in compagnia di addirittura tre band diverse (è vero, lo aveva già fatto, ma stavolta è la scaletta il punto di forza).
Per festeggiare i venticinque anni da quando, prima col singolo Balliamo sul mondo, poi con l’omonimo album Ligabue ha esordito, prodotto dal compianto Angelo Carrara, e pubblicato dalla Wea, la sua attuale etichetta discografica, il nostro ha deciso di fare davvero le cose in grande, una sorta di Woodstock emiliana, tutta incentrata sulla musica del rocker di Correggio e in modo particolare sui primi episodi. Durante la prima gig del torrenziale concerto, infatti, tenutosi di fronte a 150mila spettatori paganti (non un record italiano in virtù dei numeri del primo Campovolo) Ligabue accompagnato dai Clandestino ha eseguito tutto il primo album, dalla prima all’ultima nota, partendo da Balliamo sul mondo e finendo con Figlio di un cane (vera chicca la versione countreggiante di Non è tempo per noi, come originariamente era nell’album). Questa la formazione: Gigi Cavalli Cocchi alla batteria, Luciano Ghezzi al basso, Max Cottafavi alla chitarra, Giovanni Marani alle tastiere e come ospiti Anchise Bolchi al banjo e violino e Emiliano Vernizzi al sax.
Poi ha replicato Buon compleanno Elvis, uscito in un’altra data tonda, venti anni fa. Buon compelanno Elvis, l’album della consacrazione definitiva, quello di Certe notti e di altri sei singoli, una cosa mai vista prima e mai più vista dopo in Italia. Stavolta al suo fianco sono saliti i suoi soci dell’epoca, La Banda. Anche in questo caso tutta la tracklist è stata riproposta, canzone per canzone, da Vivo Morto o X a Leggero, con Robby Sanchez Pellani alla batteria, Antonio Rigo Righetti al basso, Mel Previte e Fede Poggipollini alle chitarre e ospiti Max Lugli all’armonica e Pippo Guarnera all’organo hammond. Assenza che stride, molto, come già nel 2005 e nel 2011, Fabrizio Simoncioni, tastierista all’epoca al suo fianco e poi tagliato fuori per sempre.
Infine è partito il terzo set, una sorta di compendio di tutto il resto prodotto in questi cinque lustri da Ligabue, brani prestati agli altri compresi. Molte assenze in scaletta, ma per quanto il concerto sia durato tre ore e mezzo, non era possibile accontentare tutti. Al suo fianco in questa terza parte i suoi musicisti di oggi, Il Gruppo, Michael Urbano alla batteria, Davide Pezzin al basso, Luciano Luisi alle tastiere, Niccolò Bossini e il Capitan Fede Poggipollini alle chitarre. Primo brano C’è sempre una canzone, inizialmente prestata a Luca Carboni e poi inserita come inedito nella antologia live Giro del Mondo, uscita proprio quest’anno.
Una scaletta ricca di chicche, da A modo tuo – ripescata per Giro del mondo dal repertorio di Elisa e per la prima volta eseguita dal vivo – a Non ho che te, altro inedito del medesimo album, e poi Sono qui per l’amore, preso da Nome e cognome, passando ovviamente per brani più soliti come Questa è la mia vita, Il meglio deve ancora venire, l’immancabile Urlando contro il cielo, vero inno da stadio, Ho perso le parole, da RadioFreccia, colonna sonora del primo film diretto dal Liga, Si viene e si va, da Miss Mondo, altra chicca, e Il muro del suono, brano piuttosto brutto che ascoltato suonato con un impianto da due milioni di watt e cantato in coro da centocinquantamila persone acquista un altro sapore. E poi Buonanotte all’Italia, attuale oggi come quando è uscita, qualche anno fa, la cover dei Rem di A che ora è la fine del mondo?, seguita dal rock tirato di Tra palco e realtà, con i brani che si dilatano man mano che si avvicina la fine.
Arriva il primo bis e comincia con un piccolo intermezzo folkloristico, destinato a un pezzo che invece ha una storia carica di empatia, l’intro de Il giorno di dolore che uno ha, dedicata al giornalista Stefano Ronzani, prematuramente scomparso 19 anni fa, viene eseguito da Bossini con una chitarra scordata e Ligabue chiede di ricominciare. Va bene essere rock, ma le canzoni vanno suonate per bene. In realtà il secondo tentativo è peggio del primo, ma lo spettacolo deve andare avanti, e il nostro stavolta fa finta di niente. Proprio Ronzani, insieme a Carrara, Feiez, il produttore Carlo U. Rossi e il padre del cantante sono stati omaggiati, sul finale, da immagini scorse sul mega schermo alle spalle del palco, un modo per sottolineare come si possa essere intimi anche di fronte a 150mila persone, del resto tutte persone di famiglia.
Gran finale affidato a un classico, Con la scusa del rock’n roll, tratto da mondovisione. Saluti di rito e buon ritorno a casa, non prima di aver assistito ai fuochi d’artificio e aver rifatto code chilometriche (chi ha voluto è rimasto al Campovolo, dove è andata in scena una sorta di Notte Bianca del Liga). Durante tutto il concerto, specie nelle prime due tranche, essendo una celebrazione, esibizione di cimeli d’epoca e memorabilia, come gli abiti di scena dei video, le statue giganti di Elvis, roba che definire tamarra non rende l’idea, ma che lì, su quel palco, e indosso a Ligabue, ha un senso. Un concerto enorme, una prova muscolare, del Liga come di Friends & Partners, la società di Ferdinando Salzano che ha organizzato l’evento e che, in collaborazione con Maria De Filippi e di Lorenzo Sucari, gestisce buona parte degli eventi musicali degli ultimi anni. Pensateci, ci saranno state spese incredibili per mettere su questa macchina, ma 150mila per 50 euro di biglietto fanno oltre sette milioni di euro di incasso.
Un concerto, Campovolo 2015, che è anche legittimamente andato contro certe scaramanzie, visti i problemi tecnici della prima edizione, targata 2005, quando l’impianto si dimostrò inadeguato per i circa 180mila paganti, e per i ladri che, nell’edizione 2.0 del 2011, ben videro di andare a svaligiargli casa, sicuri di non trovare nessuno a Correggio durante il concerto. Stavolta le cose sono andate via lisce. Grande musica. Grande festa. Grande attenzione per il pubblico, quello che del resto ha fatto sì che ci fosse molto da festeggiare stasera. Di qui la scelta di seguire il concerto lontani dalla Sala Stampa, mischiati proprio con la gente. Grande tutto.
Ligabue, spesso accusato di ricalcare le gesta di eroi del rock a stelle e strisce (non a caso omaggiate sul finale di Piccola stella senza cielo, dove Liga inserisce omaggi a Doors, Dylan, The Who, che sono inglesi ma va bene lo stesso, e Patti Smith) sia nelle tematiche affrontate nei suoi album, con la provincia e la voglia di andarsene dei primi album, la vita privata affrontata nel periodo di mezzo e un certo sguardo politico delle ultime opere, parabola percorsa in precedenza da Springsteen, tanto per fare il nome più scontato, dimostra sul palco, in modo particolare sul palco di Campovolo, di essere un performer di razza. Uno dei più grandi della nostra scena, senza voler andare a infilarsi in paragoni regionali che non potrebbero che portare polemiche.
Campovolo è veramente la Woodstock di Ligabue, così come San Siro lo è per Vasco (va bene, ci siamo cascati). Campovolo, per dirla con parole sue, è stato, quest’anno, 25 anni di Rock Made in Liga.
La domanda, legittima, che in molti si erano posti alla vigilia, era se anche Ligabue, come il suo collega Vasco, intenderà continuare a calcare il palco quando i capelli saranno passati da grigi a bianchi, o se sarebbe stato una sorta di addio alle armi. Del resto questo lasciava intendere non tanto l’idea di un nuovo Campovolo quanto quella delle sue ultime uscite discografiche, messe lì, sembrava, per riordinare casa, mettere il cellophane sui mobili prima di andarsene. Risposta svelata dallo stesso Ligabue dopo il primo bis. Paragonandosi alla Pennetta dirà che no, lui non si ritira, proprio per amore dei suoi fan. Poi, magari, da oggi in poi le uscite si diraderanno, i live pure, ma lui c’è, per loro. Mettetevi comodi.