Brutto anatroccolo di una nidiata (quella dell’83) che in Brasile ha sfornato giocatori dai piedi raffinati come Dani Alves e Bastos. Cagnaccio di centrocampo a volte randagio, criticato per le sue rudezze. Pecora nera di una nazionale che avrebbe potuto vincere un Mondiale (quello del 2010) e lo perse per causa sua. Di paragoni spregiativi col mondo animale ne sono stati fatti tanti per Felipe Melo. Solo l’epiteto di scarafaggio non gli è stato attribuito. Eppure, forse, adesso la metamorfosi è completa. Con il gol decisivo contro il Verona di ieri sera che lancia l’Inter in fuga a punteggio pieno, con il bacio dolce alla moglie in tribuna, con le prime convincenti prestazioni in maglia nerazzurra. Melo non è più brutto, sporco e cattivo. Ma bello, magari non pulitissimo nei suoi interventi (anche ieri Pazzini ne ha fatto le spese), buono come il pane per il centrocampo di Mancini.
In tre partite Felipe si è preso l’Inter, per riprendersi tutto ciò che gli era stato tolto negli ultimi anni. Degradato a testa calda, giocatore inaffidabile. Certo anche per demeriti suoi. Lui è uno dei simboli delle stagioni disgraziate della Juventus post Calciopoli: acquistato a peso d’oro dalla Fiorentina (quasi 25 milioni di euro), protagonista di una serie di errori e strafalcioni che resero un incubo le sue due annate in maglia bianconera (dal 2009 al 2011). A Torino se lo ricordano bene, bollato per l’eternità come brocco irrimediabile. Anche perché in mezzo ci fu un dettaglio non da poco a confermare l’inappellabile giudizio: quarti di finale dei Mondiali di Sudafrica 2010, il Brasile va avanti con un gol di Robinho su assist proprio di Melo. Ma Felipe non regge la pressione: prima concede il pareggio con un goffo autogol, poi perde Sneijder in marcatura sulla rete del 2-1, infine si fa espellere lasciando i suoi in inferiorità numerica. Selecao eliminata, la polizia deve intervenire al rientro in patria per salvarlo dall’aggressione dei tifosi.
Da quel giorno, che ha segnato la fine della sua carriera a livello internazionale, non ha mai più indossato la maglia verdeoro. La Juve se ne è sbarazzata l’anno dopo, cedendolo in prestito e poi svendendolo al Galatasaray. La Turchia sembrava il suo esilio dorato. Invece lì ha incontrato Roberto Mancini, che ha trovato un giocatore diverso da quello visto (e poco ammirato) in Italia. Il tempo è passato, lui è cambiato. Ha compiuto 32 anni, ha tanta esperienza di tanti errori alle spalle. Le responsabilità non gli fanno più paura: nella vita privata ha una moglie e quattro figli, sul campo fa da chioccia ai giovani e guida già una squadra che negli ultimi cinque anni è stata spesso sovrastata dalle proprie fragilità. Certo, era e resta Felipe Melo: il medianaccio cattivo, che da ragazzo faceva Jiu jitsu (nota arte marziale brasiliana) e interpreta anche il calcio da lottatore. L’istrione che ama stare davanti alle telecamere e non le manda a dire ad avversari, tifosi o giornalisti (“Le critiche? Non me ne frega niente”). Ma nell’inizio d’avventura nerazzurra interpreta anche questi aspetti in chiave positiva: con interventi duri ma sempre nel lecito che trascinano il gruppo. Con quella frase in diretta tv (“Il calcio è contatto, se non vuoi contatto vai a giocare a tennis”) che è giù un cult per gli interisti. Da capro espiatorio per gli juventini a idolo dei tifosi nerazzurri, simbolo con il gol di ieri sera di questa nuova Inter mai così vincente (cinque successi nelle prime cinque partite: non succedeva dai tempi di Herrera, stagione 1966/67).
È ancora presto. Anche alla Juventus Felipe Melo era partito benissimo, per poi perdere la bussola insieme a tutta la squadra col passare delle giornate. E il fatto che il migliore in campo (nonché match winner) sia il mediano muscolare la dice lunga sui limiti di gioco che la formazione nerazzurra continua a mostrare (e che prima o poi potrebbero sfociare in risultati negativi). Ma Felipe Melo sembra davvero un uomo nuovo, parola del diretto interessato. Mancini ha trovato il suo “volante”, e guida l’Inter in testa alla classifica.