Gli aerei da guerra italiani potrebbero prendere parte ai bombardamenti della coalizione internazionale sui territori controllati dallo Stato Islamico in Iraq. La notizia, riportata dal Corriere della Sera, sancirebbe il primo vero intervento dell’Italia e, contemporaneamente, consentirebbe al governo di Matteo Renzi di evitare anche i possibili tagli al budget per la Difesa. “La seconda motivazione è quella che veramente spiega un possibile intervento militare italiano – spiega il generale Fabio Mini, generale in pensione, già comandante della missione Nato in Kosovo (Kfor) – in una coalizione si deve fare la propria parte, ma non ci metteremo a litigare con i grandi”.
Generale Mini, si è parlato della possibilità di raid italiani in Iraq. Potrebbe veramente accadere o si tratta di una manovra del governo per evitare i tagli alla Difesa?
“La seconda che ha detto, anche se non escluderei comunque un intervento italiano. Certo, la possibilità di evitare i tagli al budget è una motivazione importante, ma non credo sia l’unica. Quando si è parte di una coalizione militare internazionale, come l’Italia per la Siria e l’Iraq, non si può semplicemente farne parte e rimanere a guardare. Matteo Renzi questo lo sa, ma sa anche che chi interviene in una rissa tra elefanti rischia di rimanere schiacciato”.
Quindi?
“Quindi è possibile che l’Italia porti avanti dei raid aerei nei territori del Califfato, ma non lo farà in Siria, dove la situazione è più complessa, e nemmeno nelle zone dell’Iraq più problematiche, come il Kurdistan iracheno, vicino al confine con l’Iran, o le aree dove si trovano i pozzi petroliferi. Bombarderemo territori prettamente desertici, lanceremo bombe su qualche sasso”.
Il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha dichiarato che la guerra in Siria “potrebbe evolvere in conflitto di portata globale”. E’ plausibile?
“No. Le parole di Tusk sono le cosiddette ‘fughe in avanti’ di chi non capisce o non ha esperienza di strategia politica e militare. I movimenti militari a cui stiamo assistendo non sono determinati da alcuna rottura politica tra le parti. Prima di arrivare alla guerra, i soggetti in gioco devono smettere di parlarsi e passare alle minacce. Qui nessuno ha smesso di parlare, lo abbiamo visto durante l’Assemblea Generale dell’Onu: nonostante le divergenze, i colloqui vanno avanti. C’è più collaborazione che antagonismo, non si sono ancora ‘sparati per sbaglio’”.
Dopo la violazione dello spazio aereo turco da parte degli aerei da guerra russi, però, il presidente Erdoğan ha dichiarato che “se la Russia perde un amico come la Turchia, con cui ha portato avanti molti affari, perderà molto”. Questa suona come una minaccia.
“Quella di Erdoğan non mi sembra una minaccia. Anzi, la vedo una dimostrazione di amicizia. Sta dicendo a Vladimir Putin ‘guarda che siamo amici, cerchiamo di rimanere in buoni rapporti’. Se avesse voluto minacciarlo avrebbe fatto partire ‘lo sparo per sbaglio’, visto che i russi gli hanno anche offerto l’occasione. Ma non lo ha fatto, non è stata presentata una nota di protesta diplomatica, l’ambasciata russa ad Ankara è ancora aperta e nessun diplomatico di Mosca è stato cacciato”.
Mosca però ha stravolto le carte in tavola: è intervenuta a sostegno di Assad, ha bombardato, oltre a Isis, le postazioni dei ribelli alleati degli occidentali e ha violato lo spazio aereo turco: sembra non essere consapevole di quale sia il limite?
“Questo, in effetti, è uno dei principali problemi. Nessuno, tantomeno gli Stati Uniti, ha detto alla Russia quali sono i limiti che non deve superare, quindi può agire in maniera relativamente indipendente. Mettere dei paletti vuol dire circoscrivere il raggio d’azione ma, allo stesso tempo, legittimare ogni azione rientri entro questo raggio. E questo Obama non può concederselo: legittimare un certo tipo di azione militare russa in Siria gli causerebbe grossi problemi interni, con l’opposizione, e non solo, che lo distruggerebbe, portandolo all’impeachment. Non mettendo paletti, la Casa Bianca di fatto permette ai russi di agire come meglio credono”.
Perché l’Occidente si è svegliato solo dopo l’intervento russo in Siria?
“Perché nessuno credeva che un intervento diretto di Mosca fosse possibile. Credo che la decisione di Putin di mandare l’esercito nel Paese sia il risultato di una grossa incomprensione tra lui e Obama. Questo perché non si parlano apertamente, ma cercano sempre di interpretare le intenzioni dell’altro attraverso i comportamenti. Credo, ad esempio, che un processo di transizione con Assad (presidente siriano, ndr) fosse una soluzione che poteva andare bene a tutte le parti in gioco. La Russia avrebbe svolto un ruolo da mediatore, come tra l’altro ha già fatto per gli accordi sul nucleare iraniano, per arrivare alla formazione di un nuovo governo senza il leader alauita. Obama questo non lo ha capito, come credo che Putin non abbia compreso che gli Usa potevano essere disposti a una transizione di questo tipo. Così si è arrivati a un’incomprensione che ha portato alla situazione attuale”.
Adesso che Usa e Russia si sono scontrate sul ruolo di Assad, crede che il presidente siriano abbia acquisito forza rispetto a qualche mese fa?
“No, questo non credo. Se pensiamo a Bashar Al Assad nei primi anni di conflitto vediamo un leader garante della sovranità nazionale. Oggi non è più così: il Paese è diviso e lui non è più in grado di offrire stabilità. Riguardo al ruolo futuro di Assad ho un’idea che non credo sia così peregrina. Penso che gli abbiano chiesto, e lui ci sta pensando, di proporsi come l’anti-Assad. Uno dei problemi degli Stati Uniti, ma anche della Russia, sarà quello di dialogare con le minoranze, soprattutto la comunità alauita di cui Assad è leader. Questa comunità, negli ultimi tempi, è stata colpita da diversi scandali, tanto da costringere lo stesso Assad a farne arrestare alcuni membri, compresi dei suoi familiari. Ecco, se il presidente siriano portasse avanti questa opera di pulizia e consegnasse nelle mani dell’Occidente una comunità unita, pulita e con la quale poter dialogare, allora avrebbe trovato il proprio ruolo nel processo di transizione”.
Quali sono allora le colpe dell’America e dell’Occidente in generale?
“L’errore più grande sulla Siria è stata la corsa al riconoscimento del Consiglio di Istanbul (il Consiglio Nazionale Siriano nato nel 2011, dopo le sommosse contro il regime di Assad, ndr) come il vero organo rappresentativo siriano. Il Cns ha ricevuto importanti finanziamenti e molti di quei soldi finivano nelle tasche di generali del Free Syrian Army che, abbiamo visto successivamente, era composto da diverse fazioni interne che si sono poi staccate. Molti di questi personaggi sono gli stessi appartenenti ai movimenti indipendentisti che, prima dello scoppio del conflitto, lo stesso Assad finanziava per cercare di mantenere dalla sua parte. Quando poi si è accorto di non poter competere con la valanga di denaro che arrivava dall’estero, ha cercato di mettere tutti in guardia dal pericolo che questi gruppi potevano rappresentare”.
Quindi si può fare un parallelo tra l’evolversi della situazione siriana e quella libica?
“Il parallelo è possibile. Tenendo conto che la comunità internazionale non riconosce più la legittimità del governo di Assad, in entrambi i casi siamo di fronte a una frammentazione interna del Paese, con numerose realtà che si fanno la guerra tra loro. In Libia, dopo la caduta di Muammar Gheddafi, si è assistito al fallito tentativo di normalizzazione attraverso la costituzione di un governo legittimo. Anche in questo caso si è portata avanti una ‘politica da bottegai’, nel senso che è emersa una mancanza di conoscenza della situazione che ha portato la comunità internazionale a dialogare solo con un numero ristretto di interlocutori, mentre non si è tenuto conto delle decine di fazioni pronte a farsi la guerra. Credo che i primi ad accorgersi dell’errore commesso siano stati proprio gli americani, dopo l’uccisione dell’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi”.
Twitter: @GianniRosini
Politica
Raid italiani in Iraq, Mini: “Lanceremo bombe su qualche sasso. E’ la strategia di Renzi per non tagliare fondi alla Difesa”
"L'Italia non interverrà nelle zone più problematiche - spiega l'ex comandante della missione Nato in Kosovo circa la possibile partecipazione dei Tornado alle operazioni della coalizione internazionale in Iraq - come il Kurdistan iracheno, vicino al confine con l’Iran, o le aree dove si trovano i pozzi petroliferi. Bombarderemo territori prettamente desertici"
Gli aerei da guerra italiani potrebbero prendere parte ai bombardamenti della coalizione internazionale sui territori controllati dallo Stato Islamico in Iraq. La notizia, riportata dal Corriere della Sera, sancirebbe il primo vero intervento dell’Italia e, contemporaneamente, consentirebbe al governo di Matteo Renzi di evitare anche i possibili tagli al budget per la Difesa. “La seconda motivazione è quella che veramente spiega un possibile intervento militare italiano – spiega il generale Fabio Mini, generale in pensione, già comandante della missione Nato in Kosovo (Kfor) – in una coalizione si deve fare la propria parte, ma non ci metteremo a litigare con i grandi”.
Generale Mini, si è parlato della possibilità di raid italiani in Iraq. Potrebbe veramente accadere o si tratta di una manovra del governo per evitare i tagli alla Difesa?
“La seconda che ha detto, anche se non escluderei comunque un intervento italiano. Certo, la possibilità di evitare i tagli al budget è una motivazione importante, ma non credo sia l’unica. Quando si è parte di una coalizione militare internazionale, come l’Italia per la Siria e l’Iraq, non si può semplicemente farne parte e rimanere a guardare. Matteo Renzi questo lo sa, ma sa anche che chi interviene in una rissa tra elefanti rischia di rimanere schiacciato”.
Quindi?
“Quindi è possibile che l’Italia porti avanti dei raid aerei nei territori del Califfato, ma non lo farà in Siria, dove la situazione è più complessa, e nemmeno nelle zone dell’Iraq più problematiche, come il Kurdistan iracheno, vicino al confine con l’Iran, o le aree dove si trovano i pozzi petroliferi. Bombarderemo territori prettamente desertici, lanceremo bombe su qualche sasso”.
Il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha dichiarato che la guerra in Siria “potrebbe evolvere in conflitto di portata globale”. E’ plausibile?
“No. Le parole di Tusk sono le cosiddette ‘fughe in avanti’ di chi non capisce o non ha esperienza di strategia politica e militare. I movimenti militari a cui stiamo assistendo non sono determinati da alcuna rottura politica tra le parti. Prima di arrivare alla guerra, i soggetti in gioco devono smettere di parlarsi e passare alle minacce. Qui nessuno ha smesso di parlare, lo abbiamo visto durante l’Assemblea Generale dell’Onu: nonostante le divergenze, i colloqui vanno avanti. C’è più collaborazione che antagonismo, non si sono ancora ‘sparati per sbaglio’”.
Dopo la violazione dello spazio aereo turco da parte degli aerei da guerra russi, però, il presidente Erdoğan ha dichiarato che “se la Russia perde un amico come la Turchia, con cui ha portato avanti molti affari, perderà molto”. Questa suona come una minaccia.
“Quella di Erdoğan non mi sembra una minaccia. Anzi, la vedo una dimostrazione di amicizia. Sta dicendo a Vladimir Putin ‘guarda che siamo amici, cerchiamo di rimanere in buoni rapporti’. Se avesse voluto minacciarlo avrebbe fatto partire ‘lo sparo per sbaglio’, visto che i russi gli hanno anche offerto l’occasione. Ma non lo ha fatto, non è stata presentata una nota di protesta diplomatica, l’ambasciata russa ad Ankara è ancora aperta e nessun diplomatico di Mosca è stato cacciato”.
Mosca però ha stravolto le carte in tavola: è intervenuta a sostegno di Assad, ha bombardato, oltre a Isis, le postazioni dei ribelli alleati degli occidentali e ha violato lo spazio aereo turco: sembra non essere consapevole di quale sia il limite?
“Questo, in effetti, è uno dei principali problemi. Nessuno, tantomeno gli Stati Uniti, ha detto alla Russia quali sono i limiti che non deve superare, quindi può agire in maniera relativamente indipendente. Mettere dei paletti vuol dire circoscrivere il raggio d’azione ma, allo stesso tempo, legittimare ogni azione rientri entro questo raggio. E questo Obama non può concederselo: legittimare un certo tipo di azione militare russa in Siria gli causerebbe grossi problemi interni, con l’opposizione, e non solo, che lo distruggerebbe, portandolo all’impeachment. Non mettendo paletti, la Casa Bianca di fatto permette ai russi di agire come meglio credono”.
Perché l’Occidente si è svegliato solo dopo l’intervento russo in Siria?
“Perché nessuno credeva che un intervento diretto di Mosca fosse possibile. Credo che la decisione di Putin di mandare l’esercito nel Paese sia il risultato di una grossa incomprensione tra lui e Obama. Questo perché non si parlano apertamente, ma cercano sempre di interpretare le intenzioni dell’altro attraverso i comportamenti. Credo, ad esempio, che un processo di transizione con Assad (presidente siriano, ndr) fosse una soluzione che poteva andare bene a tutte le parti in gioco. La Russia avrebbe svolto un ruolo da mediatore, come tra l’altro ha già fatto per gli accordi sul nucleare iraniano, per arrivare alla formazione di un nuovo governo senza il leader alauita. Obama questo non lo ha capito, come credo che Putin non abbia compreso che gli Usa potevano essere disposti a una transizione di questo tipo. Così si è arrivati a un’incomprensione che ha portato alla situazione attuale”.
Adesso che Usa e Russia si sono scontrate sul ruolo di Assad, crede che il presidente siriano abbia acquisito forza rispetto a qualche mese fa?
“No, questo non credo. Se pensiamo a Bashar Al Assad nei primi anni di conflitto vediamo un leader garante della sovranità nazionale. Oggi non è più così: il Paese è diviso e lui non è più in grado di offrire stabilità. Riguardo al ruolo futuro di Assad ho un’idea che non credo sia così peregrina. Penso che gli abbiano chiesto, e lui ci sta pensando, di proporsi come l’anti-Assad. Uno dei problemi degli Stati Uniti, ma anche della Russia, sarà quello di dialogare con le minoranze, soprattutto la comunità alauita di cui Assad è leader. Questa comunità, negli ultimi tempi, è stata colpita da diversi scandali, tanto da costringere lo stesso Assad a farne arrestare alcuni membri, compresi dei suoi familiari. Ecco, se il presidente siriano portasse avanti questa opera di pulizia e consegnasse nelle mani dell’Occidente una comunità unita, pulita e con la quale poter dialogare, allora avrebbe trovato il proprio ruolo nel processo di transizione”.
Quali sono allora le colpe dell’America e dell’Occidente in generale?
“L’errore più grande sulla Siria è stata la corsa al riconoscimento del Consiglio di Istanbul (il Consiglio Nazionale Siriano nato nel 2011, dopo le sommosse contro il regime di Assad, ndr) come il vero organo rappresentativo siriano. Il Cns ha ricevuto importanti finanziamenti e molti di quei soldi finivano nelle tasche di generali del Free Syrian Army che, abbiamo visto successivamente, era composto da diverse fazioni interne che si sono poi staccate. Molti di questi personaggi sono gli stessi appartenenti ai movimenti indipendentisti che, prima dello scoppio del conflitto, lo stesso Assad finanziava per cercare di mantenere dalla sua parte. Quando poi si è accorto di non poter competere con la valanga di denaro che arrivava dall’estero, ha cercato di mettere tutti in guardia dal pericolo che questi gruppi potevano rappresentare”.
Quindi si può fare un parallelo tra l’evolversi della situazione siriana e quella libica?
“Il parallelo è possibile. Tenendo conto che la comunità internazionale non riconosce più la legittimità del governo di Assad, in entrambi i casi siamo di fronte a una frammentazione interna del Paese, con numerose realtà che si fanno la guerra tra loro. In Libia, dopo la caduta di Muammar Gheddafi, si è assistito al fallito tentativo di normalizzazione attraverso la costituzione di un governo legittimo. Anche in questo caso si è portata avanti una ‘politica da bottegai’, nel senso che è emersa una mancanza di conoscenza della situazione che ha portato la comunità internazionale a dialogare solo con un numero ristretto di interlocutori, mentre non si è tenuto conto delle decine di fazioni pronte a farsi la guerra. Credo che i primi ad accorgersi dell’errore commesso siano stati proprio gli americani, dopo l’uccisione dell’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi”.
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Stato islamico, Rete Disarmo: “Tornado italiani in Iraq? Alibi per non tagliare budget delle spese militari”
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Roma, 4 mar. (Adnkronos) - "Chiediamo che la premier Meloni venga in aula prima del consiglio europeo di giovedì 6 marzo". Alla richiesta della presidente dei deputati Pd, Chiara Braga, in aula alla Camera si sono associate anche le altre opposizioni. "E' inaccettabile che il presidente del Consiglio si sottragga al Parlamento che non è il passacarte dei decreti del governo. Siamo abituati alla sedia vuota della Meloni ma siamo ancor piu' preoccupati dell'assenza in aula. Qual è la posizione di Meloni su Europa, sulla collocazione internazionale, sulla difesa comune, sull'Ucraina, sui dazi? Meloni deve riferire al Parlamento", sottolinea Braga.
Marco Grimaldi di Avs ha chiesto anche un'informativa al ministro degli Esteri, Antonio Tajani: "Chiediamo al governo di uscire dal silenzio". E quindi Benedetto Della Vedova di Più Europa: "Noi vogliamo che la premier venga a riferire. Lo fa per i consigli europei ordinari, molto meno rilevanti. Lo faccia a maggior ragione per questo consiglio europeo straordinario che ha una straordinaria importanza. Venga a spiegare quale è la posizione che intende portare". Fabrizio Benzoni, rinnovando la richiesta a nome di Azione, osserva: "Forse la premier Meloni ha paura di confrontarsi con l'opposizione, ma anche con la sua maggioranza vista la posizione della Lega. Siamo pronti anche a bloccare i lavori pur di avere una risposta dalla presidente del Consiglio".
Infine i 5 Stelle con il capogruppo Riccardo Ricciardi: "Abbiamo chiesto le comunicazioni di Meloni e non una informativa in modo che ci sia un voto. Lo abbiamo chiesto mercoledì scorso e nel frattempo è successo di tutto: un piano da 800 miliardi di riarmo dell'Europa, i dazi di Trump e lo scontro tra Trump e Zelensky nello studio ovale e Meloni ancora non si degna di venire in Parlamento". Infine Maria Elena Boschi di Italia Viva: "Ci uniamo alla richiesta delle altre opposizioni, richiesta già avanzata all'ultima capigruppo e rinnovata con lettera il 1 marzo al presidente della Camera. Non abbiamo avuto risposte. Nelle prossime 48 ore questo Parlamento non può discutere alcun argomento più importante di quello del consiglio europeo di giovedì 6 marzo. Noi siamo pronti a convocarci, anche di notte".
(Adnkronos) - “Sono passati 20 anni da quando Nicola Calipari ha perso la vita, durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. Un sacrificio che resta impresso nella memoria collettiva del Paese. Oggi sottolineiamo come Calipari rappresenti un esempio di impegno, professionalità e umanità. Un uomo che ha donato la propria vita proteggendo con il suo corpo Giuliana Sgrena. Un gesto istintivo e consapevole, che conferma il valore di un servitore dello Stato". Lo scrive su Facebook il vicepresidente di Noi moderati alla Camera Pino Bicchielli, capogruppo in commissione Difesa.
"Il dolore e la rabbia per la sua perdita -aggiunge- restano vivi, alimentati dalla mancanza di una giustizia compiuta. Troppe incongruenze e omissioni hanno segnato questa vicenda, in contrasto con la dedizione che Calipari ha sempre dimostrato. Fu un grande mediatore, capace di tessere relazioni complesse con attenzione e sensibilità. A Forte Braschi, sede a lui intitolata, il ricordo rimane vivo, così come nei tanti che scelgono di servire il Paese con la stessa dedizione. L’Italia intera conserva con orgoglio la memoria di una figura di tale rilievo umano e professionale”.
Roma, 4 mar. (Adnkronos) - "Di fronte alle minacce e alle fratture operate da Trump, alla sospensione degli aiuti militari a Kiev, armarsi fino ai denti non è la soluzione per l'Europa. Non lo sono 27 eserciti che ingrassano le industrie di armamenti. Il protagonismo dell'Europa non si recupera senza fare i conti con decenni persi senza costruirsi un’identità politica. Si assuma un'iniziativa diplomatica per la pace, una volta per tutte. Se non si cambia passo si muore". Lo ha detto intervenendo alla Camera il Vicecapogruppo di AVS alla Camera Marco Grimaldi chiedendo una informativa alla presidenza del Consiglio Meloni e al ministro degli Esteri Tajani.
Roma, 4 mar. (Adnkronos) - "Chiediamo la presenza in aula della presidente del Consiglio. Ieri sera l'abbiamo sentita in tv.: riflessioni interessanti ma anche confuse. Prendiamo atto che ancora una volta la premier ha scelto il video, con le domande compiacenti di qualche intervistatore, invece che venire in quest'aula". Così la presidente dei deputati Pd, Chiara Braga, in aula alla Camera chiedendo la presenza della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in Parlamento.
"Non intendiamo entrare nel merito delle cose dette" da Meloni e "neanche delle provocazioni: la premier ha chiesto in tv alle opposizioni cosa pensano dell'invio di truppe a Kiev senza mai aver comunicato nelle sede ufficiali le intenzioni del governo. Non basta un incontro volante con i giornalisti a margine di vertici internazionali. Rinnovo a nome del Pd la richiesta già fatta la scorsa settimana: la presidente del Consiglio venga in Parlamento".
Roma, 4 mar. (Adnkronos) - “Quando la scienza entra in commissione Covid, la verità emerge in modo chiaro ed inequivocabile. Anche Nicola Petrosillo, già direttore del Dipartimento clinico e di ricerca dell'Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, ha confermato che i vaccini sono stati fondamentali per contenere la diffusione del virus. Allo stesso modo, ha sottolineato come la pandemia abbia preso alla sprovvista tutto il mondo, con la conseguenza che gli interventi, compresi quelli farmacologici, avvenivano man mano che emergevano nuove evidenze scientifiche”. Così, la senatrice di Forza Italia e vicepresidente del Senato, Licia Ronzulli.
Milano, 4 mar. (Adnkronos) - "La grande, importante e complessa novità di quest’anno, che vogliamo lanciare al nostro mondo e ai nostri stakeholder, è l’impegno sul tema dell'educazione sentimentale. Un tema da inserire nel mondo della scuola, indispensabile per aiutare i giovani a imparare, oltre l'abc della grammatica, anche l’abc dei sentimenti e avere strumenti migliori per inserirsi in un mondo di relazione meno individuale e più collettivo. È un argomento complesso, ma ne vogliamo discutere. Le cooperative lo faranno nei territori con le associazioni, con le istituzioni, con i nostri soci. Perché solo da una consapevolezza collettiva si può anche essere più credibili e più proattivi verso le istituzioni". Così Maura Latini, presidente di Coop Italia, in occasione della presentazione della campagna 'Dire, fare, amare', a favore dell’educazione alle relazioni nella scuola, lanciata da Coop nell’ambito della quinta edizione del progetto 'Close the gap' dedicato alla parità di genere e all’inclusione.
Nel corso dell’evento, Coop ha presentato anche i risultati dell’indagine 'La scuola degli affetti' svolta in collaborazione con Nomisma e gli ultimi dati di avanzamento dell’impegno di Coop per la parità di genere e l’inclusione, come le certificazioni di genere e l’inserimento di donne vittime di violenza. In particolare, Coop ha "confermato una quota importante di donne nel gruppo dirigente e nel consiglio d'amministrazione, oltre alla formazione delle donne per ruoli di responsabilità - fa sapere la presidente Latini -. A questo si è aggiunta anche la certificazione Uni 125 sulla parità di genere. Una certificazione che ogni anno deve essere rinnovata e che per questo richiede un lavoro costante perché l'ambiente di lavoro vada nella direzione giusta - dice - A questo abbiamo aggiunto anche un impegno importante sulla formazione per l'inclusione e la parità di genere - aggiunge - con i nostri fornitori di prodotto a marchio, che su base volontaria hanno aderito, usufruendo di prodotti formativi realizzati da Oxfam e da scuola Coop".
Oltre ai risultati raggiunti, Coop si impegna per un futuro a sostegno delle donne e della parità di genere: "Il nostro impegno continuerà come ogni anno, contro la violenza di genere a sostegno di Differenza Donna, il numero 1522 e le case famiglia che nei territori accolgono le donne. Ma c'è una novità molto bella - annuncia Latini - nelle nostre cooperative i direttori del personale si stanno impegnando per inserire all'interno del mondo del lavoro donne fuoriuscite da un percorso di violenza, perché l'autonomia economica data dal lavoro è un elemento fondamentale affinché una donna che ha vissuto qualcosa di così traumatico si possa affrancare", le sue parole.
Milano, 4 mar. (Adnkronos) - Dalla survey 'La scuola degli affetti', svolta in collaborazione con Nomisma, con la quale si è indagata l’opinione delle famiglie italiane sulla necessità di inserire l’educazione alle relazioni nel percorso formativo di bambini e ragazzi, tema al centro della campagna 'Dire, fare, amare' di Coop Italia lanciata nell’ambito della quinta edizione del progetto 'Close the Gap', emerge che "le famiglie sono consapevoli dell’importanza che avrebbe l’avere corsi di educazione sessuale nelle scuole, perché è il contesto adatto. Al tempo stesso però, le famiglie sono preoccupate dal fatto che questi temi possano essere trattati con superficialità e che manchi il personale competente, in grado di trasmettere queste competenze ai ragazzi. È una giusta preoccupazione, che si supera sapendo che il personale competente è presente ed è in grado di trasmettere queste conoscenze e competenze in modo corretto". Queste le parole di Antonella Dentamaro, vice presidente di Aied nazionale - Associazione italiana per l'educazione alla demografia, in occasione della presentazione della campagna 'Dire, fare, amare'.
Oltre ai risultati dell’indagine, nel corso dell’evento Coop ha presentato anche gli ultimi dati di avanzamento dell’impegno di Coop per la parità di genere e l’inclusione, come le certificazioni di genere e l’inserimento di donne vittime di violenza: "Abbiamo, infatti, le linee guida dell'Oms, che sono state pensate e studiate da un gruppo multidisciplinare di professionisti della materia, che hanno concepito linee guida specifiche a seconda della fascia d'età. Infatti, ogni età ha le proprie competenze da acquisire - sottolinea Dentamaro - E' un protocollo sperimentato. Non si può parlare di neutralità perché niente è neutrale, ma è molto scientifico, molto sicuro e accogliente nel modo di trasmettere le competenze. Quindi, non c'è nulla da inventare: si tratta di iniziare ad avere questo percorso nel nostro sistema scolastico e in questo modo rinnovare la scuola, anche perché è una richiesta che arriva dagli stessi ragazzi, sostenuti dalle famiglie", conclude.