Musica

Musica indie = qualità? Non proprio. Ecco 5 buoni motivi per stare alla larga da Dente, I Ministri…

A poche ore dall'inizio della macchina da guerra X-Factor, quando tutti, chi più chi meno, staremo a commentare il talent più raffinato della televisione, presumibilmente sottolineando ancora una volta come la televisione uccida pesantemente la musica, ecco una serie di buoni motivi per evitare la scena alternativa italiana

di Michele Monina

Chiunque sia stato giovane negli anni Settanta e Ottanta si ricorderà bene della goffa e panciuta figura di Superciuk. Era il malandato supererore della serie a fumetti Il Gruppo TNT di Alan Ford. La sua caratteristica primaria, il nome parla chiaro, era quella di bere come una spugna. La sua missione, decisamente originale: rubare ai poveri per dare ai ricchi. Esattamente l’opposto di Robin Hood e dei suoi soci nella foresta di Sherwood. Ecco, a poche ore dall’inizio della macchina da guerra X-Factor, quando tutti, chi più chi meno, staremo a commentare il talent più raffinato della televisione, presumibilmente sottolineando ancora una volta come la televisione uccida pesantemente la musica, vestiamo i panni di Superciuk. Invece che stilare una lista preventiva di buoni motivi per tenersi alla larga dal mondo dei talent, eccoci a indicare cinque buoni, ottimi motivi per tenersi alla larga dalla scena indie. Fare i grossi con i piccoli, rubare ai poveri per dare ai ricchi, Superciuk. Quindi quella che segue è una lista dei cinque nomi più sopravvalutati del panorama indie attuale. Cinque, in omaggio a Nick Hornby e alla sua Alta fedeltà.

Il primo, e non potrebbe essere altrimenti, è colui che più di ogni altro incarna la figura del cantautore indie. Uno che, per dirla con Lo Stato Sociale, “Arriva da solo col chitarrino, chiede tremila euro, vuol dire che è bravo”. Parliamo di Dente, al secolo Giuseppe Peveri da Fidenza, classe 1976. Le sue canzoncine lo-fi, fatte in casa, prima per necessità, poi per vezzo, sono sempre accennate, mai compiute, un po’ come quando alla gita del liceo si provava a fare il giro iniziale di Stairway to heaven degli Zeppelin con la chitarra classica, azzeccando neanche metà delle note, solo che nel suo caso la cosa è voluta. Ci sono trovatine, battutine, rimine, sentimentini, ironietta, accordini. Tutto accennato, nel tinello di casa. Roba da far rivalutare i Supertramp.

Il secondo, e non potrebbe essere altrimenti, è I Cani. È I Cani o sono I Cani, difficile capire se vada raccordato l’articolo al nome o al fatto che I Cani è/sono in realtà un cantautore, Niccolò Contessa. Cantautore, adesso magari ci siamo allargati. I Cani è Niccolò Contessa, quello delle canzoni ficcanti su certi hipsterismi romani, quello che andava in giro col sacchetto di carta in testa, quello che esordisce in rete, scrive canzoni con per titolo il nome di un tipo famoso (ah, no, quello lo fanno tutti) poi passa all’esordio vero e proprio con Il sorprendente album d’esordio de I Cani, un po’ come esordire con il proprio Greatest Hits, come faceva tipo venticinque anni fa Marco Carena. I Cani, uno che scrive canzoni con testi che vogliono essere ficcanti, ma che inducono piuttosto l’ascoltatore a prendere la tessera di Forza Nuova o Casapound, appoggiati su musichette anche queste approssimative, fatte con giri di basso suonati maluccio, con tastiere Bontempi. Perché tanto è l’effetto d’insieme che conta. Tanto parli di San Lorenzo o del Lexotan, come non amarti? “A noi”.

Il terzo, e invece poteva anche essere qualcun altro, a ‘sto punto, è una band, perché di trio si tratta, ed è anche indie. Sono I Ministri, la band milanese capitanata da Federico Dragogna, produttore a la page piuttosto in voga in questo momento. La band propone un power rock sporco, con testi, tutti di Dragogna, piuttosto orientati sul politico. Chi non ricorda il loro esordio, con un euro infilato nella copertina? Chi non ricorda la hit Diritto a un tetto? Molti, probabilmente. Ma I Ministri son qui che lottano insieme a noi. Però, se è vero come è vero che bisogna tirare noccioline a chi scimmiotta le pose da gangster e poi va a pranzo la domenica da Mammà in zona Castello sforzesco, tipo gli ex Club Dogo, è altrettanto vero che farci spiegare la via odierna al marxismo da ragazzetti di zona San Babila lascia un fastidioso retrogusto in bocca. Una volta si parlava di credibilità. Oggi pure.

Il quarto è un altro nome plurale che nasconde un nome singolo, forse. Si tratta di Le luce della centrale elettrica, dietro il quale sta Vasco Brondi, cantautore ferrarese lanciato nel 2008 dall’album Canzoni da spiaggia deturpata, prodotto mirabilmente da Manuele Fusaroli e da Giorgio Canali. Canzoni strane, sghembe, ruvide, in cui i testi avevano la parte del leone, con un immaginario da generazione avvilita e svuotata di speranze degli anni Zero in cui in parecchi si sono riconosciuti. Anche la musica, ovviamente, suonava bene, e con quei due produttori lì, voglio ben dire. Peccato che questa magia si sia fermata lì. Al punto che si è cominciato a pensare che, magari, il tocco magico di quel primo lavoro, se tocco magico c’è stato, non era farina del sacco di Brondi. Del resto, e qui si finisce nel banale, di gente che parla nei dischi, da Giovanni Lindo Ferretti a Emidio Clementi, passando per gli Offlaga Disco Pax, è pieno il mondo indie. Non che quando Brondi si mette a cantare le cose vadano meglio eh, anzi, vien da invocare il coprifuoco fino a tempi migliori. Coprifuoco fino a tempi migliori: Vasco, giù le mani, che questa è roba mia, ho i testimoni.

Siamo arrivati al quinto nome, e onde evitare accuse di sessismo, è arrivato il momento di tirare fuori il nome di un’artista donna. #Escilo, si dice in questi casi. Perché è vero che il mondo del rock è da sempre ad appannaggio quasi esclusivo degli uomini. È vero che il mondo del cantautorato è da sempre ad appannaggio quasi esclusivo degli uomini. È vero che il mondo della discografia è da sempre ad appannaggio quasi esclusivo degli uomini. Ma donne che fanno indie in Italia ce ne sono, che ci vorrà mai a tirare fuori un nome sopravvalutato. Tipo… o come… oppure…  No, nomi di donne sopravvalutati non ce ne sono, perché i siti di riferimento, tipo Rockit, tanto per fare un nome, di donne si occupa una volta ogni morte di papa, e perché in effetti va pur bene rubare ai poveri per dare ai ricchi, ma andare a evidenziare le defaillances artistiche di artiste che già non hanno un minimo di attenzione da parte dei media, sarebbe più come andare a bombarare casa dei poveri per far spazio alle ville dei ricchi, costruite coi soldi rubati ai poveri stessi. Superciuk non apprezzerebbe, perché dietro quel fegato smisurato, gonfio dalla cirrosi, batte un cuore d’oro. Quindi i cinque nomi sopravvalutati dell’indie sono quattro. Anche in questo, ‘sti maledetti hipster, sono approssimativi.

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