Quando Daniel Pennac presentò il suo fortunatissimo romanzo “Il Paradiso degli orchi” (1991), dove il protagonista Benjamin Malaussene di professione faceva il “capro espiatorio” in un supermercato, dichiarò a diversi giornalisti che quell’idea era nata leggendo i saggi di Rene Girard. L’antropologo francese, professore emerito da trent’anni all’Università di Stanford, deceduto negli Stati Uniti la scorsa notte a 91 anni dopo una lunga malattia, grazie ai suoi studi sul “desiderio mimetico” nell’uomo e al profondo scandagliare dell’origine dei riti e miti fondativi della violenza nella società, era diventato talmente “popolare” da finire come fonte d’ispirazione perfino nei romanzi più letti al mondo.
Ed era dai classici della letteratura come I Demoni di Dostoevskij o Alla ricerca del tempo perduto di Proust che Girard fin da laureando aveva tratto spunto a sua volta per una ricognizione sulle origini “violente” della natura umana. In particolare, lo studioso cattolico nato ad Avignone nel 1923 era interessato alle cause del conflitto e della violenza, e al ruolo dell’imitazione nel comportamento umano. I nostri desideri che duplicati portano alla rivalità e alla violenza – spiegava nei suoi saggi pubblicati negli anni sessanta come Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani) – non sono nostri, perché noi vogliamo che ciò che gli altri vogliono. Da qui l’analisi del “desiderio mimetico”, concetto poi utilizzato come base teorica nelle scoperte scientifiche sull’empatia e i “neuroni specchio” da parte di Vittorio Gallese, Giacomo Rizzolatti e di Andrew Meltzoff. Girard sosteneva che il conflitto umano non è stato causato dalle nostre differenze, ma piuttosto dal nostro desiderio di “identicità”.
L’elemento antropologico che Girard mette in luce e sistematizza, già chiaramente in nuce in numerose tecniche pubblicitarie in voga all’epoca nell’esplosione industriale post seconda guerra mondiale, è legato al fatto che nella dinamica lineare del desiderio del soggetto verso un oggetto viene a presentarsi un terzo elemento che è l’ “Altro”, finito ad essere preso come modello. Come si spiegherebbero altrimenti sentimenti come l’invidia e la gelosia? Molte volte, scrisse Girard, “traiamo soddisfazione più che dal possesso dell’oggetto stesso, dal fatto che l’altro non riesca a possederlo”. Di fondo, ci ha spiegato l’antropologo francese, sicuramente influenzato dalle teorie psicanalitiche, il desiderio nell’uomo nasce di per sé ma senza sapere per cosa, e spesso è proprio nell’incrociare la possessione dell’altro di un qualcosa o il rapporto dell’altro con qualcuno che l’uomo oggettivizza il suo desiderio sul sentimento altrui.
Non è soltanto l’ “avere” qualcosa che soddisfa il desiderio, ma una sorta di proiezione dell’ “essere” che si raggiunge nell’ottenerla. L’effetto dirompente di questa teorizzazione porta a mettere in discussione l’individualismo moderno della figura umana libera da stimoli esterni e artificiali. Il passo successivo Girard lo compie con i volumi La violenza e il sacro (1972) e Il capro espiatorio (1987) – In Italia pubblicati da Adelphi – dove la figura terza dell’ “Altro” che può assumere il ruolo del “rivale” diventa l’elemento problematico: desiderio, rivalità, violenza. Ecco allora che si innesta il sacrificio del capro espiatorio: l’atto o il rito attraverso il quale dalla notte dei tempi e ancora nella società contemporanea gli individui e le società si liberano di colpa e colpevolezza scaricandola violentemente su un outsider, altrimenti definito secondo una lunga tradizione dei testi religiosi un capro espiatorio, riconciliandosi con gli antagonisti e ripristinando l’unità sociale apparentemente minacciata in precedenza. Una teorizzazione in fondo banale, ma su cui Girard ha ragionato per primo, con un’attenzione peculiare che, come dice Heidegger è propria di “ogni vero pensatore cioè che pensa un solo pensiero”, declinandone poi il significato all’interno della storia della religione cristiana provocando una serie di aspri e intensi dibattiti filosofici, alieni al pubblico italiano, ma presenti sui media francesi e anglosassoni.
Infine Girard non è mai finito ai margini della cronaca e della storia, rimanendo con accademica gradualità, parte dell’attuale pensiero contemporaneo. Quando nel 2007 ha pubblicato “Portando Clausewitz all’estremo” ha sostenuto che la violenza è sfuggita ad ogni “controllo”, ad ogni mediazione, e il fondamentalismo religioso e interventi militari occidentali sono “un inferno di dannati dove tutto è permesso”. Dietro l’angolo è pronta l’Apocalisse, un nuovo Olocausto, la fine dell’umanità. E se ce l’ha detto Girard meglio cominciare a fare i bagagli per fuggire su Marte.