di Alberto Piccinini*
Come è noto, la legge Fornero ha aperto la prima vera crepa nell’edificio dell’articolo 18: esso viene modificato rendendo meno automatico il diritto alla reintegra anche in caso di licenziamento ingiustificato, e ciò sia per il licenziamento disciplinare che per quello cosiddetto economico (individuale per motivo oggettivo o collettivo all’esito di una procedura di mobilità).
Ma la riscrittura della norma dello Statuto, frutto di complesse e laceranti mediazioni tra le forze politiche che sostenevano il “governo tecnico” di Monti, lasciava comunque spazi per ottenere ancora, in alcuni di quei casi, una pronuncia di reintegra da parte del giudice.
È a quel punto che arriva il colpo di grazia a questa forma di tutela: il governo attualmente in carica, anziché aggredire di petto l’articolo 18 (versione Fornero), ne decreta la morte lenta, per progressiva consunzione. Lo lascia, infatti, in vita per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, introducendo una disciplina parallela che regola diversamente le conseguenze dei licenziamenti illegittimi di quelli assunti dopo. La vecchia tutela resterà applicabile ad un numero sempre minore di lavoratori fino a quando non rimarrà… nessuno.
I nuovi assunti con contratti a tempo indeterminato “a tutele crescenti” (contratti certamente aumentati nel 2015, perché drogati da forti sgravi fiscali e contributivi garantiti per tre anni), in compenso, se licenziati illegittimamente, potranno di regola aspirare solo a un indennizzo legato all’anzianità di servizio (due mensilità per ogni anno di lavoro per i datori di lavoro sopra i 15, una mensilità per gli altri, con dei tetti massimi rispettivamente di 24 e 6 mensilità).
Il legislatore del 2014 (legge delega) e 2015 (decreto attuativo), evidentemente non influenzato da opinioni che contrastassero quelle – della Confindustria – che lo hanno ispirato, ha elaborato un testo “semplificato” che scoraggia il ricorso al giudice, al quale vieta sempre di reintegrare in caso di licenziamento economico e non consente alcuna valutazione di proporzionalità del licenziamento disciplinare, cancellando anche la contrattazione collettiva come parametro di riferimento. In compenso vengono promosse forme di conciliazione preventive con un pagamento dimezzato (ma con vantaggi fiscali, a discapito dell’Erario) dell’indennizzo dovuto.
Di qui una prima reazione di totale sconforto degli operatori giuridici pro labour, che ha portato a considerare il cosiddetto contratto a tutele crescenti un momento di svolta non solo della lunga storia del diritto del lavoro, ma anche della propria professione. Poi abbiamo cominciato a pensare ad iniziative di contrasto: da quelle di tipo sindacale, consistenti in proposte volte a inserire specifiche tutele, ad esempio, in caso di cambi d’appalto per i dipendenti che, pur continuando a lavorare nello stesso posto, mutando datore di lavoro perderebbero la “vecchia tutela”; ovvero nel presentare piattaforme rivendicative nei rinnovi contrattuali anche aziendali, che garantiscano un’equiparazione di trattamento tra nuovi e vecchi assunti; a iniziative politiche, finalizzate a cancellare l’intero decreto legislativo che ha istituito i contratti a tutele crescenti con un referendum; a iniziative di politica giudiziaria di lungo respiro, con coinvolgimento della Corte Costituzionale e/o della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per l’irragionevole diversità di trattamento tra dipendenti di uno stesso datore di lavoro. Ma questo non ci deve impedire di cercare soluzioni di tutela immediata per le vittime del Jobs Act, che presto, in misura sempre più “crescente”, si presenteranno.
Il mio consiglio, ai lavoratori e a coloro che li assisteranno, è di non dare nulla per perduto. Valutiamo con attenzione che dietro al licenziamento non si nascondano forme di discriminazione, fortunatamente ancora tutelate dalla legge, o casi di divieto di licenziamento (non solo per gravidanza, ma anche se coincidente con il matrimonio).
Non rassegniamoci a considerare incontrastabile un licenziamento per motivi futili: a fronte di un atto palesemente nullo per violazione di norme imperative si potrà sempre richiedere al giudice di applicare i principi di diritto comune, in forza dei quali l’atto non può produrre effetti. Del resto un contratto di diritto civile può essere risolto solo per un inadempimento di non scarsa importanza; l’illegittima risoluzione dovrebbe sempre comportare il diritto a chiedere l’adempimento salvo, in alternativa, l’integrale risarcimento del danno. Non si vede perché al Giudice del lavoro debba essere sottratta la facoltà di valutare la gravità di un eventuale inadempimento (peraltro puntualmente normata dalla contrattazione collettiva) in essere dal lavoratore, né perché il risarcimento del danno debba essere sostituito da un modestissimo indennizzo.
In altri termini è ancora possibile cercare di trovare, tra le rovine dell’impianto originario, magari studiando i problemi da diversi e nuovi punti di vista, il materiale per ricostruire i diritti che restituiscano la dignità alle persone che verranno umiliate dalla privazione ingiustificata del loro lavoro.
* Sono avvocato giuslavorista a Bologna e ho sempre svolto la professione, come suol dirsi, da una parte sola: dalla parte dei lavoratori. Ho seguito, con il collegio di difesa Fiom, il contenzioso contro la Fiat e il licenziamento dei tre operai di Melfi. Ho scritto alcuni articoli in riviste specializzate e qualche libro in materia di licenziamenti individuali e collettivi e di comportamento antisindacale (oltre a un paio di romanzi e una raccolta di racconti)