La scarcerazione di sette presunti jihadisti decisa dal Gip di Bolzano è arrivata come un fulmine, mentre in tutta Europa è caccia aperta alle diverse cellule jihadiste guidate da Daesh. Quell’inchiesta, che il giorno prima della strage di Parigi era stata presentata come “la più importante degli ultimi vent’anni”, ha visto la caduta delle principali accuse per una parte consistente degli indagati. Nessun vizio di forma, nessuna dimenticanza della Procura di Trento – che ha ricevuto il fascicolo per competenza territoriale – come aveva ipotizzato il Sole 24 ore. La questione è in realtà molto seria e attuale, soprattutto dopo il 13 novembre.
Il procuratore di Trento Giuseppe Amato spiega a ilfattoquotidiano.it il motivo di una decisione destinata a creare non poche polemiche: “Non c’erano indizi gravi per i sette indagati”. Per poi aggiungere: “Un contatto informatico non significa automaticamente aver partecipato ad una associazione terroristica”. Dunque non basta, per la normativa italiana che punisce con pene severe il terrorismo internazionale, l’aver partecipato alla Jihad attraverso la rete. Non solo: “Secondo le ultime norme sulla custodia cautelare – aggiunge il procuratore di Trento – gli indizi devono essere attuali e alcuni indagati erano in realtà spariti dall’orizzonte investigativo da tempo”. Il riferimento è alle modifiche dell’articolo 274 del codice di procedura penale che disciplina la custodia cautelare. Con la legge 47 del 16 aprile scorso sono stati modificati i presupposti generali necessari per poter richiedere le misure cautelari: il pericolo di fuga o la possibilità di compiere reati gravi deve essere, oltre che concreto, attuale. Una norma che sta evitando il carcere soprattutto nei casi più complessi dove i tempi per la richiesta cautelare e la relativa decisione del Gip sono spesso lunghissimi. In questo caso la procura di Trento ha ritenuto, per i sette indagati non inseriti nella nuova richiesta di custodia cautelare, che gli elementi raccolti durante le indagini siano lontani nel tempo (alcune intercettazioni risalgono al 2013) o basati solo sul tracciamento delle attività in rete, non supportate poi da altri riscontri oggettivi.
L’indagine del Ros partita nel 2011 è stata trasferita per competenza territoriale al Tribunale di Bolzano e alla Dda di Trento dal Gip di Roma al momento della firma dei 17 provvedimenti cautelari. Il centro della presunta cellula jihadista era la città di Merano, come hanno dimostrato le indagini. Una volta eseguiti i provvedimenti – che hanno raggiunto materialmente solo una parte degli indagati, con cinque cittadini curdo iracheni irreperibili – il codice di procedura penale prevede che la Procura che ha acquisito la competenza rilegga le carte, ripetendo le richieste di carcerazione preventiva. Ed è quello che è avvenuto. Nella nuova richiesta di ordinanza firmata dalla Procura di Trento – ancora al vaglio del Gip di Bolzano, che si è riservato la decisione sui 10 indagati per i quali la Procura ha confermato la richiesta di arresto – i nomi di sette indagati non sono stati inseriti per una precisa scelta investigativa dei magistrati. La Procura di Trento ha dunque cercato gli elementi oggettivi, quali le “tracce di finanziamenti, i contatti con gli elementi chiave dell’organizzazione” per supportare gli indizi che derivavano dall’attività di monitoraggio della rete jihadista portata avanti per diversi anni dai carabinieri. Ed è il punto dove si è creato il corto circuito giudiziario e normativo.
Gli elementi indiziari presenti all’interno delle 1200 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare appaiono sicuramente preoccupanti, soprattutto dopo i drammatici giorni di fuoco che stanno vivendo la Francia e l’Europa. Il problema vero è la natura del network jihadista che fa capo allo Stato islamico: liquido, spesso basato su comunicazioni che passano esclusivamente attraverso i canali informatici, con una frammentazione e una difficoltà – anche linguistica – di interpretazione che rende probabilmente superata la normativa sul terrorismo internazionale, nata dopo l’11 settembre. Alcuni magistrati che in passato hanno condotto delicate indagini sul terrorismo internazionale spiegano la difficoltà ricordando come per la pedopornografia sia stato necessario prevedere una legge che punisse anche la semplice detenzione di materiale illegale. Così non è per il jihadismo, almeno secondo l’interpretazione data dai magistrati trentini. I due presunti membri dell’organizzazione terroristica scarcerati avevano, secondo gli elementi raccolti dal Ros, un ruolo apparentemente decisivo all’intero della rete aderente allo stato islamico. Mohama Fatah Goran, ad esempio, così veniva descritto nella prima ordinanza di custodia cautelare, firmata dal Gip romano: “Componente della cellula italiana di Rawti Shax, era esecutore di incarichi riservati e segreti attuativi dei propositi violenti di Krekar e Rawti Shax, a cui partecipava anche attraverso la chat room “Kurdistan Kurd u Islam DiDi Nwe”“. Lo stesso Goran aveva postato sul suo profilo pubblico di Facebook “numerosi contenuti riferiti all’incitamento alla jihad in nome e per conto di Krekar”, ovvero il Mullah ritenuto a capo dell’organizzazione.
Dalle intercettazioni sarebbero poi emersi dei contatti con esponenti del movimento curdo iracheno che puntava a instaurare un “nuovo ordinamento statuale in danno di quelli attualmente esistenti in Irak e Siria”. La circostanza più grave riguarderebbe poi il coinvolgimento di Mohama Fatah Goran nel “comitato segreto” dell’organizzazione del Mullah Krekar: “In data 15 settembre 2013 Abdul Rahman Nauroz – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip del Tribunale di Roma – alla presenza di Mohamad Fatah Goran e Fath Abdullah Alnd alias mullah Soran, confida al secondo di avere ricevuto l’incarico di costituire il cd “Comitato Segreto”. La vicenda trattava dell’ordine impartito da Krekar a Nauroz e veicolato attraverso Jalal Fatah Kamil il 19.05.2012, di costituire un comitato segreto in Europa”. Un elemento che però risale al 2013 e che quindi è stato ritenuto non attuale dalla Procura di Trento. Anche i contatti – in buona parte avvenuti su profili Facebook e all’interno di una chat – con altri jihadisti sono stati alla fine ritenuti indizi “non gravi”.