E’ successo alla fine dei ruggenti anni ’80, quelli della Milano da bere. Malindi, in Kenya, iniziava a trasformarsi in una sorta di paradiso africano, dove la droga scorre senza tanti problemi. Poi tutto è cambiato. Il paese a sud del Corno d’Africa da vent’anni è diventato ormai un vero e proprio Hub, un centro di smistamento usato dai gruppi di narcos di tutto il mondo. Qui arrivano tonnellate di cocaina, dirette poi verso l’Europa via Sud Africa. E qui, dal 2013, si sta spostando la “via dell’oppio”, quel sentiero che parte dalle piantagioni dell’Afganistan. Lo snodo siriano – che smistava il traffico verso la strada dei balcani – è troppo pericoloso e controllato.
E’ il 15 luglio dello scorso anno. La motonave Amin Darya, un vecchio cargo costruito in Iran negli anni ’80, viene abbordato al largo della costa keniota. Oltre a diesel probabilmente di contrabbando, dalla stiva sbucano fuori 800 chili di eroina purissima, varietà brown, la più pregiata. Un carico che vale milioni di dollari. E’ solo uno dei mega sequestri realizzati al largo del Kenia negli ultimi due anni, da quelle parti ultimamente il prodotto principale dell’Afganistan gira a tonnellate. Chi controlla quel traffico?
Il gruppo di monitoraggio delle Nazioni unite incaricato di verificare il rispetto dell’embargo in Somalia ed Eritrea nell’ultimo report del 19 ottobre scorso ipotizza, dati alla mano, il coinvolgimento di al Shabab, l’organizzazione terroristica affiliata allo stato islamico. Il cargo Amin Darya si sarebbe fermato una decina di giorni al largo delle coste somale prima di arrivare in Kenia e sarebbero stati visti salire a bordo miliziani jihadisti. Un link che rilancia l’ipotesi ventilata dai diplomatici russi durante una riunione alle Nazioni unite: Daesh utilizzerebbe anche la rotta dell’eroina – il cui mercato è in netta ascesa in Europa negli ultimi anni – per finanziare la guerra in Siria e i kamikaze lanciati in Europa. Viktor Ivanov, a capo dell’ufficio federale russo per la lotta al narcotraffico, già lo scorso marzo stimava in un miliardo di dollari il fatturato dello stato islamico derivato dalla distribuzione dell’eroina afgana. Una rete che potrebbe contare anche sulle cellule jihadiste sparse in Europa, in grado di utilizzare i proventi della vendita sulle piazze per autofinanziarsi.
“Senza soldi, la jihad si ferma”. Sa’id Al-Masri, il deceduto direttore finanziario di al-Qaeda, sapeva benissimo che nessuna rete terroristica – soprattutto globale – può reggere senza un flusso finanziario consistente. E se questo principio valeva per l’organizzazione di Osama bin Laden, la necessità di denaro è vitale per Daesh. Lo stato islamico può contare oggi su un budget annuo di 2,2 miliardi di dollari secondo stime recenti del CET, Centre d’analyse du terrorisme, think tank francese che ha realizzato alcuni studi sullo stato finanziario della rete jihadista globale. Accanto al preoccupante interesse emergente per il grande traffico di eroina, lo stato islamico può reggersi grazie ad una diversificazione delle fonti di finanziamento, che rende l’autoproclamato califfato molto più pericoloso rispetto ad al-Qaeda. Dietro il mantello religioso si nasconde il più grande network criminale degli ultimi decenni. Una sorta di Colombia dei narcos e dei paramilitari nel cuore del Medioriente.
Rapimenti ed estorsioni, la tassa sui disperati
I rapimenti ai fini di riscatto e le estorsioni hanno fruttato a Daesh nel 2014 – secondo le analisi del rapporto “Global Terrorist Financing Threat” del Dipartimento del Tesoro Usa, pubblicato lo scorso giugno – tra i 20 e 45 milioni di dollari. A questa cifra si devono aggiungere i riscatti chiesti e ottenuti da al-Qaeda e da Boko Haram, gruppo terroristico oggi affiliato allo stato islamico. La campagna di rapimenti avvenuti in Yemen tra il 2011 e il 2012 avrebbe fruttato altri 20 milioni di dollari all’organizzazione fondata da bin Laden, mentre i francesi avrebbero pagato – secondo il rapporto Usa – circa 30 milioni di dollari nell’ottobre del 2013 per la liberazione di quattro tecnici della compagnia nucleare Areva. Un altro riscatto consistente sarebbe stato pagato due anni fa per la liberazione di un tecnico inglese rapito in Camerun da Boko Haram. Anche gli spagnoli hanno contribuito, pagando 5 milioni di dollari ad al-Shabab per ottenere il rilascio di due ostaggi rapiti in Kenia nel 2011. Un tesoro che alla fine è entrato nelle casse della rete jihadista globale.
L’estorsione è forse il tratto caratteristico del bilancio di Daesh, l’autoproclamato califfato che ha in mano il vasto territorio tra Siria e Iraq. Il controllo del territorio vuol dire, prima di tutto, poter imporre alla popolazione una forma di tassazione, un vero e proprio pizzo che colpisce tutte le attività economiche. Il sottosegretario Usa al tesoro con delega su terrorismo e intelligence finanziaria David S. Cohen nella sua deposizione davanti al congresso del 13 novembre 2014 stimava in diverse decine di milioni dollari i soldi raccolti ogni mese attraverso forme estorsive.
L’imposizione del pizzo colpisce anche il flusso dei rifugiati, come ha spiegato il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi, arrivato da poco nella capitale forte del bagaglio di esperienza nella procura di Catania, dove ha seguito diverse inchieste sugli sbarchi dalla Libia: “E’ assolutamente certo che il mutamento delle rotte per la crisi libica e siriana – ha spiegato il magistrato in un recente seminario organizzato da Limes sui link tra traffici illeciti e stato islamico – causa il taglieggiamento continuo da parte di organizzazioni anche terroristiche, determinando i viaggi dell’orrore”. Un dato che è confermato da fonti investigative della Polizia di Stato: “Quando abbiamo intervistato i migranti – spiega un alto funzionario a ilfattoquotidiano.it – ci hanno raccontato della presenza di bandiere nere e di miliziani lungo il percorso”. Dei veri e propri check-point creati per riscuotere il pizzo, “esattamente come fanno i mafiosi”. E se nel gruppo vi è qualche siriano con disponibilità economica, i miliziani di Daesh organizzano dei rapimenti a scopo di riscatto.
Oro nero: un milione al giorno da estrazione e contrabbando
La stima dei profitti che derivano dalla vendita del petrolio estratto dai pozzi controllati dallo stato islamico è di circa un milione di dollari al giorno, come ha dichiarato il sottosegretario Cohen durante la sua deposizione. Secondo altre fonti, il fatturato potrebbe raggiungere anche i due milioni di dollari al giorno, per una produzione stimata in 20-30 mila barili (dati del New York Times, settembre 2014) solo per i pozzi in territorio iracheno. La raffinazione avviene utilizzando impianti mobili montati su camion, in grado di muoversi rapidamente sul territorio, acquistati normalmente da fornitori turchi. Il trasporto avviene soprattutto grazie ad una miriade di autobotti che raggiungono il confine, pronti a vendere a broker che provengono dai paesi vicini, con sconti tali da rendere particolarmente competitivo il prezzo sul mercato. Alcune fonti statunitensi hanno riferito anche di veri e propri oleodotti artigianali, che vengono aperti o chiusi a distanza utilizzando la rete cellulare. Lo scorso anno le autorità turche hanno scoperto una pipeline di quasi cinque chilometri, in grado di contrabbandare dalla Siria migliaia di barili di greggio, ad un prezzo di circa 40 dollari, ben al di sotto dei valori di mercato.
Le contromisure
“Isil ha attirato l’attenzione mondiale per la sua crudeltà – ha spiegato Cohen nel suo discorso davanti al Congresso – ma anche per un’altra ragione: è sostanzialmente ricco”. E la vera difficoltà che esiste per attaccare finanziariamente lo stato islamico sta nella complessità del suo sistema di gestione dei fondi: “E’ un lavoro lungo – ha spiegato Cohen – e non abbiamo la pallottola d’argento o l’arma segreta per svuotare le cassaforti di Isil la notte”. Fino a quando il califfato manterrà il controllo del territorio le sue casse saranno sempre piene.
La guerra finanziaria allo stato islamico si è basata fino ad oggi su una serie di contromisure contro “la vendita di petrolio e prodotti raffinati, il pagamento di riscatti, le estorsioni e le donazioni da stranieri”. Quanto siano state efficaci è sotto gli occhi d tutti. Il sottosegretario Cohen ha assicurato di aver già avviato una campagna di boicottaggio di quei soggetti che acquistano il greggio dallo stato islamico. Una politica che però non è facilmente attuabile nei due paesi più coinvolti, la Turchia e il Kurdistan. Il petrolio, una volta immesso in commercio, diventa molto difficilmente tracciabile e la rete di complicità che formano una vera e propri area grigia attorno allo stato islamico di certo non aiuta. Complicata è anche la battaglia degli Usa contro il pagamento dei riscatti: “Abbiamo raddoppiato lo sforzo con i nostri partner stranieri – ha spiegato Cohen – per tradurre l’emergente consenso internazionale contro il pagamento dei riscatti in un pratica adottata su larga scala”. Ma, come è noto, i partner europei – Italia in testa – la pensano molto diversamente. Molto più complicato è colpire i cosiddetti donatori esterni, quella rete di fiancheggiatori di Daesh coperti spesso da stati sovrani. “Negli ultimi dieci anni abbiamo applicato sanzioni a due dozzine di individui associati con al-Qaeda o Isil”, ha spiegato il sottosegretario Usa. Un numero che si commenta da solo. In ogni caso lo stato islamico ha la caratteristica di una spiccata autonomia finanziaria: a differenza di al-Qaeda, dei Talebani, di Hamas o di altri gruppi, il suo budget non dipende in buona parte dai grandi finanziatori del network della jihad.