Ancora ai tempi delle fortiniane, splendide e terribili Canzonette del Golfo la guerra si faceva: “lontano, lontano”.
Ora non più e dunque, in paradossale sincronismo con le celebrazioni di quella del 15-18, pare proprio che dobbiamo farci i conti piuttosto da vicino con ciò che usualmente chiamiamo ‘guerra’.
Anche se non la definirei mondiale, quest’ultima, ma ‘quantica’: procede a ‘pacchetti’, o se preferite, a flame: intensi, inzeppati di segni e ideologie e crudeltà; è assolutamente contro-intuitiva, senza un fronte, senza una dichiarazione d’apertura d’ostilità, né possibilità alcuna d’armistizio, mezza viva e mezza morta, probabilistica come il gatto di Schrödinger, suicida e stragista insieme. Come fosse un risultato di una mutazione genetica, capace di mostrare infine a tutto il mondo quanto sia nefasto l’ultimo (l’ennesimo) intreccio tra turbo-capitalismo e integralismi monoteisti (tutti, nessuno escluso).
Passeggiare in questi giorni sul greto del Piave, a Sernaglia della Battaglia, o sui luoghi della terribile, orrenda Battaglia del Solstizio, ha, dunque, un che di surreale. Come fare il bagno in una poltiglia densa di passato, resa acre e disgustosa dai brandelli di presente che il fiume sacro alla patria trascina verso il mare. Eppure la chiave per comprendere una guerra, qualsiasi guerra, è proprio nel suo nascere sempre all’incrocio tra passato e presente e dal loro cortocircuitare. Vale dunque la pena di parlarvi di due bei libri dedicati proprio alla Prima guerra.
Ciò che piace di più in questo Cent’anni a Nordest (Rizzoli ed.), ultima prova solista di Wu Ming 1 è proprio la capacità di unire passato e presente, di fare della “Guera granda”, come la si chiama qua a Nordest, il pretesto per andare a scovare tutte le sue cicatrici nascoste sotto la patina del benessere in quelle che furono le terre dello scontro sul Fronte meridionale e poi quelle del miracolo economico e del sogno secessionista. Nato da una serie di reportage scritti per Internazionale, il testo descrive, mappa, smaschera le dinamiche sotterranee di quella parte d’Italia che proprio della “Guera granda” è figlia: dal Trentino, al Veneto, al Friuli Venezia Giulia.
Così seguire la linea del fronte di ieri apre le porte dei fronti odierni a Nordest: tra separatismi secessionisti, Schützen tirolesi, guardie padane alleate di neo-fascisti post-moderni e neo-putiniani, nostalgici degli Asburgo e irredentisti ostinati, il Nordest di oggi si svela drammaticamente figlio di quella guerra, quella guerra l’ha plasmato e creato e, creando il Nordest, ha creato l’Italia, così come la conosciamo oggi. Perché le guerre ridisegnano i territori e le culture e i valori degli esseri umani che le abitano, e non sempre in meglio.
E come oggi le prime vittime di questa guerra ‘quantica’ sono gli immigrati che fuggono dall’Isis e sono spietatamente respinti alle frontiere d’Europa, ieri migliaia di morti italiani furono proprio i fucilati per diserzione, o insubordinazione, in un delirio di autoritarismo autistico e cadorniano di cui vergognarsi ancora oggi.
Nessun esercito fucilò tanti suoi soldati quanto quello italiano: siamo primi nella classifica dell’ignominia. Potevano addirittura essere estratti a sorte, in caso d’insubordinazione collettiva. C’è, insomma, a voler far metafora, una faccia oscura sin degli Alpini.
Proprio di questi morti per ‘fuoco amico’ parla il bellissimo libro di poesie di Giuseppe Nava, Esecuzioni (d’if ed., Premio Mazzacurati-Russo). Esso è costruito su un caleidoscopio di citazioni tratte dai verbali dei Tribunali di Guerra del tempo.
Un esempio è questa efficacissima trasposizione in versi delle parole del generale Graziani, che prova a difendersi dalle accuse di crudeltà, piovutegli sul capo: “occorre imporsi con qualunque mezzo / imporsi con mezzi straordinari / avere ragione di quelle cause
che hanno pervertito gli sciagurati/ una lotta d’aggressione morale /una lotta d’aggressione fisica / lottare contro le orde di sbandati / ricondurre subito all’obbedienza / (…) / come quel pomeriggio sulla piazza / di noventa di piave il tre novembre / stavo in piedi sull’automobile
rispondevo salutando al comando / attenti a sinistra quando m’accorsi / un sigaro piantato nella bocca / la faccia atteggiata a riso di scherno / mi fissava con aria di sfida /(…)/ ho bastonato nella schiena quel soldato / e legato dai carabinieri / l’ho fatto prontamente fucilare /contro il muro della casa vicina”.
Questa guerra modernissima, la prima guerra davvero ‘moderna’, è poi arcaica nelle sue dinamiche di sopraffazione e violenza, in un parossismo in cui, per il povero fante, il nemico non è solo nell’altra trincea, ma alle sue spalle, pronto a fucilarlo al suo primo cenno d’esitazione o di protesta. Senza speranza alcuna di compassione. La poesia funziona da specchio, la poesia con i suoi a-capo e i suoi accenti dà ritmo alla prosa burocratica, la performa in melos, l’io del poeta scompare, e la superficie delle parole, così sottoposte a torsione, costringe il linguaggio del potere a smascherarsi da solo, a denunciarsi, con tutto il suo carico di violenza, interesse, crudeltà. Nella “Guera granda”, come in tutte le guerre.
Perché in fondo, se non si tratta di una guerra di liberazione, tutte le guerre sono comunque guerre tra diversi fascismi. Ieri, come oggi e, ahinoi, domani.