Avrà sedici, diciassette anni. I jeans, la maglietta a righe, delle Nike. Uno zainetto nero. Dove vai? gli chiedo. Siamo su un taxi. In Iraq. Mi risponde: In Germania. Sta andando da Bassora, a sud, a Dohuk, a nord. Al confine con la Turchia. Dalla Turchia in Italia, o forse in Grecia – dipende. Da lì, poi, non sa. Tutto si parla qui, in queste ore, tranne che l’arabo. Gli iracheni ti salutano in tedesco, in svedese. Olandese. Studiano mappe e cartine. E Wikipedia: studiano strane religioni di strane minoranze. Gli shabak. I mandei. I caldei. Un amico pakistano, per strada, telefona al tassista. E’ a Budapest. Domanda se gli yazidi bevono alcool. Se sono arabi o curdi. E pregano a braccia conserte, come i sunniti, braccia dritte come gli sciiti, o forse non pregano affatto, come gli alauiti? E soprattutto: sull’arrosto ci va il cumino?
Sa che fingendosi yazida ha più possibilità di ottenere asilo. Il problema, qui, non è solo la guerra. Partono tutti: anche quelli che vivono lontano dal fronte. E soprattutto, anche quelli che hanno casa e lavoro. Vendono tutto per pochi dollari, riempiono la borsa e partono. Husam Salim ha 28 anni, ed è uno dei più noti, e tenaci, attivisti yazidi – più esattamente, “di origine yazida”: perché le sue battaglie, puntualizza, sono per tutti gli iracheni. “Non è solo una questione economica. Anzi. Tra le cause di questa fuga, la povertà è secondaria come secondaria è la guerra”, dice. “Perché non si fugge dalla guerra vera e propria, in questi giorni, dalla Siria, dall’Iraq, ma essenzialmente dai paesi vicini. Fugge chi era già fuggito. I siriani fuggono dalla Turchia. Gli afghani dall’Iran.
Perché ormai il problema, qui, è la società in sé. Cioè, anche se domani avessimo sicurezza e ricchezza, la verità è che nessuno di noi ha più voglia di stare in mezzo a questi scontri continui tra sunniti, sciiti, cristiani. La religione è ovunque. E siamo stanchi. Stanchi della religione, delle tradizioni. Delle intrusioni in ogni minimo aspetto della vita, che vengano dallo stato, dall’Islam o da tuo padre. Siamo stanchi”. Qui, dice, la verità è che non sei mai libero. Non sei mai al sicuro. Se anche sei della stessa etnia, magari non sei della stessa tribù. O delle stesse idee. “Di giorno sembra tutto normale. Belle auto, belle case. Bella vita. Ma di notte non sai mai chi sfonderà la tua porta”.
Il Kurdistan è forse l’esempio migliore. Al momento è l’area più sicura, qui. E non è affatto un’area povera. Ma oltre ad avere l’Isis all’angolo, e i bombardamenti turchi in testa, ha le faide tra le due famiglie al potere: i Talabani e i Barzani. Si sono spartiti tutto. Anche i gestori telefonici. E più che una spartizione, è una divisione. Dove funziona l’uno, non funziona l’altro.
Contrariamente a quanto si pensa, i ragazzi come Husam non sono l’eccezione: sono la regola. “In tutto il Medio Oriente, la società civile è straordinariamente viva. E laica”, dice Martina Pignatti Morano, presidente dell’italiana Un Ponte Per. Sono in Iraq da 24 anni. Più di ogni altra Ong. Ma non saranno mai loro a dirtelo. Loro minimizzano. Discreti. Sempre un passo dietro gli iracheni. Perché a parte i progetti tipici delle Ong, la specialità di Un Ponte Per è il sostegno agli attivisti locali. Che significa mille cose, significa per esempio pagare avvocati e cauzioni di chi finisce in carcere, studiare insieme proposte e disegni di legge: ma anche solo, semplicemente, esserci. Non lasciarli soli. Sentirli ogni giorno. “Baghdad per settimane è stata tutta un corteo”, dice Martina. “E sono state approvate riforme importanti per arginare la corruzione, e soprattutto il settarismo – in Iraq le cariche pubbliche non sono assegnate in base alla competenza, ma all’etnia e alla religione. Con un sistema di quote introdotto dagli americani. Certo, queste riforme sono solo carta, per ora, bisogna attuarle. Ma mentre noi non discutiamo che di sunniti e sciiti, profughi e terroristi, gli iracheni hanno ottenuto un nuovo codice del lavoro. Adesso i sindacati sono legali. Gli iracheni si battono per l’acqua, per la libertà di espressione, i diritti delle donne… Esattamente come noi nei nostri paesi. Ma di tutto questo non si parla mai”, dice.
Quest’estate Beirut, per settimane, è stata in piazza come Baghdad. E come Baghdad, nell’indifferenza di tutti. “Il problema – dice Caterina Mecozzi, che si occupa dei profughi siriani – è che è più facile avere fondi per cose materiali. Coperte, tende. Scuole. Per il dopo. Per il disastro avvenuto. Non per tutto quello che forse consentirebbe di evitarlo”.
Le iniziative di Un Ponte Per a sostegno della società civile sono finanziate da donazioni private. Da svizzeri e norvegesi. Dai governi non è arrivato un euro.