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Isis, cosa ci chiedono i peshmerga a Roma contro il terrorismo

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È passato più di un anno da quando l’Italia ha fornito all’Iraq duecento mitragliatrici, 650mila munizioni e duemila razzi per Rpg destinati ai curdi che combattono l’Isis, i peshmerga. Una delegazione dei combattenti che hanno strappato al Califfato prima Kobane e ora Sinjar arriva domani a Roma per incontrare il presidente della commissione Difesa del Senato, Nicola Latorre (Pd).

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Tra gli altri ci saranno Karim Sinjari, ministro dell’Interno con delega ai Peshmerga e il generale Sherkh Jaffar Sherkh Mustafa, comandante della forza 70 dei peshmerga sulla linea di Kirkuk, in prima linea contro Daesh, come in Medio Oriente preferiscono chiamare l’Isis. Vengono a chiedere sostegno all’Italia (utile per rafforzare l’immagine dei peshmerga a livello internazionale) e soprattutto armi: di quelle spedite nel 2014 pochissime sono arrivate direttamente in prima linea, il grosso è rimasto all’esercito iracheno regolare.

Ma questo non sembra un problema superabile: le leggi italiane non consentono di armare milizie, soltanto di vendere armamenti a Stati riconosciuti. Bisogna sempre essere certi del “final use”, cioè del fatto che anche vendendo armi a un governo legittimo poi questo non le passi a forze che poi combattono guerre civili o compiono scorribande.

Insomma: è difficile che i peshmerga possano ottenere molto di più che qualche pacca sulla spalla, dichiarazione di solidarietà e – magari – una quota di armi che l’Italia potrebbe inviare al governo di Baghdad guidato da Haydar al-Abadi.

Eppure i peshmerga sono cruciali in questo momento. Per due ragioni: uno dei nodi da sciogliere nel Medio Oriente di domani, quello che nascerà dalla fine del regime di Bashar al Assad in Siria, è proprio il destino dei curdi. E’ davvero il momento di immaginare un Kurdistan reale, tra Turchia, Siria, e Iraq? Nessuno sembra crederci davvero, tranne forse l’ex ambasciatore americano presso l’Onu, John Bolton, che ha immaginato nuovi Stati nella regione divisi su base etnica (sunniti, sciiti, curdi).

La seconda ragione è più contingente: secondo quanto raccontano gli esperti militari, l’Isis si sta preparando ad affrontare uno scontro di terra. Gli obiettivi da bombardare in Siria e Iraq sono considerati ormai esauriti. Il prossimo passo nella guerra al Califfo – pensano in tanti – sarà con i “boots on the ground”, gli stivali sul terreno. Per questo l’Isis ha predisposto centinaia di cecchini e minato le città che controlla, come Mosul e Raqqa.

L’ex ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, al Fatto, ha dichiarato qualche giorno fa che “gli stivali sul terreno ci sono già, quelli dei peshmerga”. Ma è difficile combattere le guerre per procura, le proxy war, quando non puoi neppure armare quelli che sono disposti a morire per te.

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