Novantanove seggi all’opposizione, 46 al chavismo e 22 che, misteriosamente, chissà quando Tibesay Lucena, la presidente del CNE, il tribunale elettorale venezuelano, si deciderà ad assegnare.
Già perché sono già passate 12 ore dalla chiusura dei seggi a Caracas ma per capire se chi non ha votato PSUV – il partito del presidente Nicolás Maduro – avrà o meno la maggioranza qualificata nel Parlamento che s’insedierà a inizio 2016, chissà quanto bisognerà ancora attendere.
La questione non è di lana caprina. Se infatti l’opposizione al chavismo riuscirà a portare a casa almeno 112 dei 167 seggi del legislativo, allora non solo potrà dare fastidio a Maduro che governa da tempo il Venezuela grazie a superpoteri attribuitigli dal Parlamento uscente, ma anche sottoporre via referendum al giudizio popolare se l’attuale presidente a metà mandato debba rimanere per altri 3 anni a Miraflores oppure tornarsene a casa.
Di certo c’è che la batosta ricevuta dalla “tropa chavista” è stata molto dura, addirittura peggiore a quella del referendum proposto da Hugo Chávez per introdurre una costituzione socialista. Era il 2007 e, all’epoca, l’ex tenente-colonnello dei paracadutisti se ne uscì con una delle sue tante frasi cult. “Una victoria de mierda” disse riferendosi al trionfo dell’opposizione, sintesi sublime del suo momentaneo scoramento che non necessita di traduzione.
Domenica Maduro – che di Chávez non ha né il carisma, né l’intelligenza – non è arrivato a tanto anche se, da stamattina, la parola d’ordine del chavismo, è che la “rivoluzione continua” e che quello del “6D“, il 6 dicembre, è stato solo un incidente di percorso, una “reazione della controrivoluzione”. Nella pratica molti degli scenari futuri dipenderanno da quei 22 seggi ancora sotto scrutinio – stranezza enorme per non dire preoccupante visto che il voto elettronico in teoria trasmette in tempo reale i voti – mentre assai più facile è l’analisi di questa “vittoria storica”, come la definiscono tanti, assai più traumatica per il chavismo della precedente “victoria de mierda” con cui la maggioranza dei venezuelani dissero no al socialismo costituzionale.
Nessuno stupore a Caracas per il risultato elettorale. Per rendersene conto bastava farsi un giro, ieri sera, nel 23 de Enero, tradizionale quartiere popolare-feudo del chavismo, dove in parecchi hanno festeggiato con petardi, fuochi artificiali e raffiche di mitra la vittoria della MUD, la coalizione eterogenea che da ieri è maggioranza nel paese. Nessuno stupore perché tutti i sondaggi della vigilia, sia quelli venezuelani che quello del Pew Research Center di Washington, davano il desiderio di cambiamento dell’elettorato venezuelano tra il 70%% e l’88%.
Se Maduro riuscirà ad ottenere più dei 55 seggi che evitano la maggioranza qualificata dell’opposizione, potrà dunque davvero ringraziare il cielo e, chissà mai, anche il CNE, la cui lentezza nello sciogliere i dubbi sui 22 seggi sub judice induce a pensare male più passa il tempo. Una tale perdita di patrimonio elettorale dopo le indiscutibili conquiste del chavismo per le fasce più povere e sino ad allora escluse dalla società – nonostante le minacce della vigilia con candidati dell’opposizione ricevuti a pistolettate in almeno 5 comizi (uno ucciso in circostanze da chiarire), nonostante tutta la macchina statale a disposizione di Maduro e una televisione pubblica che sabato non ha mostrato neanche un volto dell’opposizione – è impressionante e dovrebbe far riflettere molto i dirigenti del PSUV. E la loro riflessione non sarebbe che la sconfitta, come ha detto ieri Maduro, “è frutto della guerra economica”.
Se i due cambi ufficiali che sino a ieri tutto controllava – non solo il CNE ma anche i tribunali che, dal 2005, non emettono una sola sentenza contro agli interessi del chavismo – sono rispettivamente di 6,3 e 13 bolivares per un dollaro, mentre sul mercato nero ti danno 1.000 bolivares per un euro, la colpa non è degli oppositori, ma dell’assurdo controllo valutario imposto dal governo.
Se oggi l’inflazione oscilla tra il 236,6% ed il 600% l’anno – dipende da quale istituto di ricerca si scelga perché da oltre un anno la Banca Centrale del Venezuela ha smesso per vergogna di rendere noto questo dato– la colpa non è degli yankee bensì delle politiche monetarie da parte del governo.
Se per comprare al Mercal, i supermercati dove alla popolazione di minor reddito è consentito l’acquisto di beni a prezzi ridotti, prima si sono inventati la tessera biometrica per evitare che il popolo ci andasse più volte la settimana e, alla fine, quando le file sono diventate chilometriche Maduro ha mandato la Guardia Nazionale Bolivariana per scongiurare saccheggi, la colpa non è della “borghesia parassita” o dei “contrabbandieri” – dopo la chiusura della frontiera con la Colombia il problema scarsità rimane – bensì del governo che non è riuscito a dare un seguito produttivo alle tante nazionalizzazioni fatte. L’esempio della Sidor, che ha visto crollare la sua produzione, è illuminante e non è arrestando i proprietari di attività commerciali dove si formano file interminabili – come ha ordinato Maduro prima del voto di ieri – che si riempiono gli scaffali di supermercati o si aumenta il reddito del pueblo.
Se oggi la povertà colpisce il 70% dei venezuelani e se la criminalità controlla intere zone di Caracas, non è nascondendo il numero dei morti ammazzati che entrano nelle morgue che si risolve il problema, è dei “media al servizio dell’Impero” che danno conto.
E – tralasciando il tema della corruzione – non è colpa del popolo venezuelano se due cugini della first lady Cilia Flores sono stati arrestati ad Haiti con 800 kg di cocaina da esportare via Honduras e Messico negli Usa. E la colpa non è neanche della CIA se i due si sono fatti registrare da finti narcos in realtà agenti DEA mentre fornivano loro 5 kg di coca “da provare” e adesso rischiano l’ergastolo.
Per questo e per molti altri motivi ieri il PSUV è stato “punito” dai suoi tradizionali elettori e perciò una seria riflessione su quale futuro si voglia dare alla “rivoluzione” sarebbe auspicabile da parte del governo Maduro. Altrimenti, qualsivoglia sia il destino che riserverà il CNE ai 22 seggi “contesi”, la fine ingloriosa chavista di una Venezuela più equa sarà solo questione di tempo.
di Giovanni Franceschi