La conferma della condanna a 16 anni. L’assoluzione. O il riconoscimento dell’aggravante della crudeltà, che potrebbe far aumentare la pena addirittura fino a 30 anni di carcere, come chiesto dal procuratore generale di Milano Laura Barbaini. Alberto Stasi ha davanti a sé queste tre possibilità. Venerdì 11 dicembre inizierà il processo che porterà giudici della Cassazione a sceglierne una. E a mettere così la parola fine al processo sull’omicidio di Chiara Poggi, uccisa a Garlasco il 13 agosto del 2007. Meno probabile, invece, che gli ermellini annullino la sentenza rinviando ancora una volta il caso alla Corte d’Appello.
Sul banco degli imputati solo lui, l’allora fidanzato della vittima e studente della Bocconi, oggi commercialista di 32 anni senza lavoro che è stato assolto in primo e secondo grado e condannato con rito abbreviato nell’appello bis, dove quasi un anno fa è stato stabilito che quella mattina fu lui a massacrare “brutalmente” la 26enne “perché pericolosa”, anche se i giudici nelle 140 pagine in cui motivano quella pena di 16 anni non spiegano il movente, che rimane un mistero. Otto anni di processo che stanno per concludersi. Una battaglia tra accusa e difesa combattuta a colpi di perizie e memorie: sulla camminata dell’assassino nella villetta di via Pascoli, sulle scarpe di Stasi e sui tappetini della sua Golf, sul capello trovato nella mano di Chiara Poggi, sulle impronte raccolte dal portasapone in bagno e su quelle lasciate sul pigiama della ragazza.
E su nuovi elementi emersi nell’appello bis. Come quello che ha sciolto il mistero delle biciclette della famiglia Stasi, una da uomo e una da donna, i cui pedali, secondo quanto accertato in appello, sono stati invertiti. Con il risultato che le tracce del Dna della vittima rimaste sui pedali della bicicletta vista sulla scena del crimine, sono finite su un altro mezzo non compatibile con quello avvistato davanti a casa Poggi. Per ricostruire il puzzle ci sono voluti sette anni. Un ruolo non secondario nella complicazione del rompicapo, avevano riconosciuto i giudici della Corte d’Appello, è stato svolto dall’ex comandante della stazione dei carabinieri di Garlasco: il maresciallo Francesco Marchetto che, pur avendo visionato la bicicletta giusta in compagnia del padre dell’imputato, Nicola Stasi, nei giorni immediatamente successivi all’omicidio, non la fece né sequestrare né fotografare, occupandosi invece di mezzi che non corrispondevano alle descrizioni dei testimoni. Una scelta che i giudici hanno definito “anomala” e che “di sicuro non ha giovato alle indagini, altrettanto sicuramente non ha danneggiato l’imputato così come adombrato dai suoi difensori”, si legge nella sentenza di condanna che parla di “solerzia del maresciallo Marchetto nel non sequestrare (ma neppure fotografare) una bicicletta che a poche ore dall’omicidio aveva assunto un indubbio interesse investigativo“.
Di approfondire la posizione di Marchetto si occuperà il tribunale di Pavia, dove l’ex maresciallo in seguito a un esposto della famiglia Poggi è imputato per falsa testimonianza e la prossima udienza è in calendario per l’8 febbraio. Il reato di cui è accusato l’ex sottufficiale che condusse la prima fase delle indagini sul delitto Poggi è legato proprio agli accertamenti sulla bicicletta nera da donna che la testimone Franca Bermani vide appoggiata al muretto della villetta dei Poggi la mattina del 13 agosto, intorno alle 9: orario compatibile con l’omicidio. La signora fornì subito una descrizione del mezzo. Marchetto venne ascoltato durante l’udienza preliminare davanti al gup di Vigevano Stefano Vitelli il 30 ottobre 2009. Gli venivano chiesti chiarimenti sul mancato sequestro della bicicletta in uso alla famiglia Stasi. Dichiarò “sotto giuramento e in più occasioni che la bicicletta rinvenuta nell’officina del Signor Stasi Nicola non corrispondeva alle caratteristiche descritte dalla Signora Bermani”. E affermò di essere stato presente durante la testimonianza della Bermani. Peccato che la stessa testimone abbia smentito la circostanza.
Non solo. Secondo quanto si legge nelle carte depositate a Pavia, Marchetto si spinse oltre. “Provvide in assoluta autonomia a dettare una annotazione di servizio nella quale si attestava l’asserita non conformità fra la bicicletta nera da donna” degli Stasi con quella vista dalla testimone, annotano i legali della famiglia della vittima, Gian Luigi Tizzoni e Francesco Compagna. Motivo per cui la bici non venne né sequestrata né fotografata, fatto che contribuì all’assoluzione di Stasi in primo grado e nel primo appello. Il sequestro giusto arriva solo il 30 aprile del 2014. Emerge così che la bicicletta nera in possesso degli Stasi assomiglia a quella vista dalla Bermani la mattina dell’omicidio e che i pedali sono stati scambiati. E arriva anche la condanna.
Anche la difesa di Stasi, con il professor Angelo Giarda, è costretta a parlare di “indagini preliminari svolte con approssimazione e finanche negligenza”. “Dato condivisibile”, ammette Giarda, “ma non addebitabile all’imputato”, che viene definito “il bersaglio più semplice e forse anche quello già scontato”. Tralasciando che il ragazzo interpellato sulle biciclette di famiglia omette di descrivere l’unica che assomiglia a quella vista dalla testimone. Quanto a chi condotto le indagini, l’atteggiamento del sottufficiale è solo di “approssimazione” e “negligenza” o, come accusano i legali della famiglia Poggi, si tratta “di un vero e proprio atteggiamento doloso”? “Anche in considerazione del fatto – proseguono gli avvocati nell’esposto contro il carabiniere per falsa testimonianza – che il Maresciallo Marchetto gestì da solo, senza l’ausilio di altri militari, tutte le fasi” legate agli accertamenti sulla bici. Una scelta che, stando alla testimonianza del brigadiere Pennini, potrebbe essere collegata al “rapporto confidenziale” tra Marchetto e Nicola Stasi.
“Le sue dichiarazioni lasciano supporre che proprio in virtù di rapporto”, si legge ancora nelle carte di Pavia, il carabiniere possa aver deciso “di recarsi personalmente ad effettuare il riscontro sulla bicicletta”, senza assere assistito da nessun collaboratore. Una circostanza già di per sé anomala. Anche se il carabiniere si spinge oltre. Marchetto, infatti, non ha redatto personalmente l’annotazione di servizio, ma ha chiesto a un appuntato di scriverla e di sottoporgliela alla fine solo per la firma. Insomma, il sottufficiale, il giorno dopo l’omicidio, si recò in compagnia del padre di un possibile indiziato a compiere un’ispezione in solitaria, e alla fine dettò un resoconto ufficiale a persone che non erano presenti ai fatti. Del resto lo stesso padre dell’indiziato, riferisce ancora il brigadiere, era arrivato addirittura a protestare contro il Marchetto per il modo in cui ha trattato il figlio nel colloquio avvenuto subito dopo l’omicidio: “Franco questo da un amico non me l’aspettavo! Hai offeso mio figlio”. Non trascurabile, infine, la misteriosa scomparsa dagli atti di un album composto da 41 fotografie di Chiara Poggi, Alberto Stasi e le amiche di lei che era stato sequestrato a casa Stasi il 20 agosto 2007 e che poteva contenere anche le immagini di scarpe e biciclette.
Dei dissidi del maresciallo in caserma a proposito del caso Poggi, c’è invece traccia in un altro procedimento giudiziario nel quale Marchetto, in veste questa volta di imputato, è stato condannato, in primo e secondo grado, per i reati penali di favoreggiamento aggravato della prostituzione, peculato e, ai soli effetti civili, di calunnia. L’ultima sentenza, alla quale non è stato opposto ricorso, è del 10 luglio 2014. Il caso riguarda un night di Garlasco, l’Exclusive Club, che il maresciallo “frequentava abitualmente da solo ed in compagnia di amici intrattenendo o facendo intrattenere a questi ultimi rapporti sessuali con alcune delle ragazze che vi lavoravano – come si legge nelle carte del processo – così favorendo la prostituzione praticata nel locale, fatto aggravato dall’essere stato commesso in violazione dei doveri inerenti la funzione pubblica ricoperta e commesso in Garlasco tra il gennaio 2010 ed il novembre 2011”. Il peculato invece è riferito al fatto che Marchetto si era “appropriato di un ricevitore trasmettitore trackers gps che aveva ricevuto in esito a contatti presi per ragioni del suo ufficio con i responsabili di Hypertech srl ed averlo utilizzato per fini privati prestandolo a Sempio Silvia per controllare le infedeltà coniugali del marito”.
Quanto alla calunnia, il riferimento è a una denuncia che lo stesso maresciallo aveva presentato il 13 ottobre 2011 presso la Procura di Vigevano per accusare “il capitano Cassese e il maresciallo Moriglia di aver commesso vari episodi di abuso d’ufficio, ma nella narrativa della denuncia non ha descritto specifici episodi”, si legge nella sentenza di primo grado. Dove si sottolinea che dal punto di vista penale non è ravvisabile né il reato di calunnia né quello di diffamazione e si racconta che “la denuncia presentata dal Maresciallo Marchetto appare piuttosto la lettura da parte dell’ufficiale di una serie di atti compiuti nei suoi confronti come frutto di astio ed odio da parte del Capitano Cassese e, poi, del Maresciallo Moriglia, che ebbero a iniziare dopo il diverbio che l’indagato ed il capitano Cassese ebbero in ordine alla conduzione dell’interrogatorio di Alberto Stasi nelle immediatezze dell’episodio delittuoso accaduto in Garlasco nell’agosto 2007”. Quale che sia stato il diverbio, i giudici di appello ravvisano nella denuncia una “pretestuosa e infondata ragione per i dissapori che sarebbero all’origine degli atti persecutori” e un “tentativo gravissimo di screditare il capitano Cassese” che il maresciallo è stato condannato a rifondere con 25mila euro per danni non patrimoniali.