Ricorreremo al Consiglio d’Europa per la violazione della Convenzione di Istanbul e assisteremo le vittime di violenza presso la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo qualora si sentano lese nei loro diritti dalle procedure dello Stato italiano.
I 73 centri antiviolenza D.i.Re non ci stanno e nemmeno Telefono Rosa, Udi, la Libera università delle donne di Milano, Ferite a morte, Fondazione Pangea, Be Free, Pari e Dispare, Uil, Le Nove e Giuristi democratici. Lo hanno detto forte e chiaro durante la conferenza stampa che si è svolta stamattina nella sala Cristallo dell’Hotel Nazionale a Montecitorio. Erano presenti molte donne, alcuni parlamentari, Pippo Civati, Roberta Agostini, Marisa Nicchi, Giovanna Martelli e Delia Murer e molte attiviste femministe tra le quali Alessandra Bocchetti, che ha spiegato di essere presente perché “trova estremamente preoccupante la regressione a cui stiamo assistendo. Le donne vengono ricacciate in una sorta di “minorìa” della cittadinanza femminile, stanche di non essere mai nell’agenda politica di questo Paese e, quando ci sono, non vengono consultate”.
Le rappresentanti delle associazioni che hanno organizzato la conferenza stampa sono intervenute una ad una: Titti Carrano (D.i.Re), Vittoria Tola (Udi), Gabriella Moscatelli (Telefono Rosa), Oria Gargano (Be Free) per dire no! all’emendamento Giuliani che introduce il percorso di tutela delle vittime di violenza in tutti i pronto soccorso italiani, purtroppo approvato in Commissione Bilancio della Camera il 15 dicembre scorso. Le accuse contro l’emendamento sono durissime. E’ stato scritto con ignoranza e scarsa conoscenza di un fenomeno che ha bisogno di percorsi individuali e non standardizzati, è animato da vendetta da parte di chi ha cercato di imporre per anni un percorso di costrizione alle donne maltrattate senza riuscirci (fino all’emendamento) ed è inadeguato perché non prevede follow up dopo la visita al pronto soccorso che può salvare la vita delle donne.
A nulla sono serviti i ritocchini apportati al precedente testo nel tentativo di placare le proteste dei centri antiviolenza e delle associazioni impegnate sul tema dei diritti delle donne. Il testo, come già denunciato nei giorni scorsi da D.i.Re, “viola l’ordinamento nazionale e internazionale, innanzitutto la Convenzione di Istanbul, che prescrive un approccio di genere perché la violenza di genere contro le donne non è una questione privata, non è una questione di sanità o di ordine pubblico, ma un grave problema sociale che ha radici nella nostra cultura e va affrontato con una coerente e seria guida politico istituzionale”.
Il codice Rosa Bianca sui percorsi a tutela delle vittime è sempre stato contestato durante i tavoli di confronto per il Piano Nazionale Antiviolenza e non è l’unica esperienza realizzata in un pronto soccorso per aiutare le donne. Da diversi anni anni esistono le esperienze del Codice Rosa dell’Ausl di Napoli e quella dell’ospedale Umberto I di Roma, a cui partecipa Differenza Donna. Eppure non si è mai aperto alcun confronto o riflessione con i centri antivolenza per capire come costruire il migliore progetto per le donne. E’ stato imposto il modello di Grosseto, nonostante le obiezioni. Perché?
Per farsi un’idea dell’impostazione del Codice Rosa Bianca andate sul sito dell’ausl di Grosseto: viene descritta una procedura che tra ambiguità e contraddizioni presenta una sorta di esercito della salvezza animato da un interventismo istituzionale che mette al centro del percorso le procedure invece che la consapevolezza, le risorse e la libertà delle donne che, fra l’altro, non sono nemmeno nominate. La lettura della violenza di genere, in violazione della Convenzione di Istanbul, viene inghiottita dalla neutralità di tante “vulnerabilità” mischiate un calderone che equipara diverse problematiche.
Snoq libere ha esultato dopo l’approvazione dell’emendamento, mentre le tifoserie del Codice Rosa Bianca, stizzite dalle contestazioni, si erano date da fare sui social attaccando i centri con una palla colossale: accusandoli di affrontare il problema della violenza come una loro questione privata. Negli anni in cui le istituzioni erano latitanti e non avevano gli strumenti per riconoscere il problema, i centri antiviolenza sono stati i primi a divulgare dati, a rivelare le caratteristiche del fenomeno, a sensibilizzare, a realizzare progetti innovativi e a chiedere con forza il coinvolgimento delle istituzioni. Hanno creato reti di collaborazione con servizi sociali, pronto soccorso e forze dell’ordine in città e province dove c’era il deserto, ma sempre pensando a progetti che restituissero forza alle donne che sono soggetti di diritto e non oggetti di tutela. Questa è la differenza tra femminismo e patriarcato. Snoq libere riconosce la differenza? E chi ha votato l’emendamento?
Marina Terragni ieri ne ha scritto sul suo blog definendo questo percorso un disastro simbolico e reale perché le donne non sono minori deficienti da tutelare, ma persone da accompagnare in un percorso ogni volta diverso nei tempi e nei modi. Che la libertà non è una medicina che si può inoculare. Poi, appellandosi alle colleghe della stampa estera, ha denunciato interessi distanti dalla libertà delle donne e non poteva dirlo meglio.
@nadiesdaa